domenica 10 giugno 2012

più che miopi



Un recente studio dell'OCSE ci conferma quanto, a lume di naso, ci sembrava già di sapere, e cioè che nel nostro paese la riuscita scolastica è strettamente correlata alla condizione socioeconomica della famiglia dell'alunno.
Più precisamente condividiamo il poco nobile primato in questo campo con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, paesi in cui, sia detto per inciso, la privatizzazione dell'istruzione universitaria pone ulteriori, e direi insormontabili, ostacoli all'accesso ai più alti livelli di formazione a chi proviene da classi svantaggiateÈ evidente la simpatia che il nostro attuale governo di tirapiedi delle aristocrazie finanziarie ha per quel modello d'istruzione.
La prima denuncia, con impatto di massa, di questo stato di cose risale, come tutti fingiamo di ricordare, alla Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani, era il 1967.
Da allora, qualche passo nella direzione giusta era stato fatto e un percorso di ricerche sul campo (Mario Lodi, Albino Bernardini, ...) aveva delineato un abbozzo di nuova scuola che trovò accoglienza istituzionale nell'impostazione di fondo degli ambiziosi Nuovi Programmi della scuola elementare (1985).
Ma non era trascorso neppure un quinquennio dal loro varo, che i nuovi programmi furono messi in forse dalla pretesa costatazione, nei fatti, di una loro presunta inadeguatezza alle necessità di una società in rapida trasformazione, che richiedeva differenti strumenti di accesso e interpretazione a un volume globale di conoscenze che, dopo aver atteso un secolo per raddoppiarsi, si era successivamente raddoppiato in un cinquantennio, poi in un venticinquennio, per attestarsi, infine, su un ritmo di raddoppio decennale.
Il dato, andando a ben vedere, era falso, ma anche preso per vero avrebbe dovuto indurre a proseguire sulla strada intrapresa, che, pur con limiti di impostazione illuministica, aveva di mira più l'acquisizione di strumenti critici, che di nozioni.
Nel frattempo, l'imporsi di una concezione postmoderna aveva portato alla damnatio memoriae di ogni strumento che, a torto o a ragione, poteva essere bollato come ideologico, e nella nuova convinzione che non esistessero fatti, ma solo interpretazioni, non ci si avvide, forse, che a prevalere erano in definitiva le interpretazioni di chi disponeva di un adeguato apparato di propaganda.
Ci fu dunque un rapido spostamento dall'asse affettivo-assiologico a quello cognitivo-istruttivo, e a Freinet si preferì Bruner.
Il fatto che questa evoluzione del modo di pensare la scuola trottasse di pari passo con la riscoperta dell'individualismo liberista dello strombazzato edonismo reaganiano, non insospettì quasi nessuno, anzi, le avanguardie, timorose di farsi sorpassare, si impadronirono lestamente della nuova parola d'ordine e anche l'MCE seguì la corrente.
Nelle successive semplificazioni, tornarono, come si disse, necessariamente, i compiti a casa e morì il tempo pieno, passando da modello didattico alternativo, a puro e semplice tempo-scuola opzionabile, destinato - prevalentemente - ai coatti.
A perfezionare il tutto ci pensò, nel 1997, Luigi Berlinguer, con la sua riforma che si proponeva un superamento della tradizionale dicotomia tra cultura e professionalità della scuola italiana.
Dietro l'apparente formulazione democratica si nascondeva un'operazione che invertiva il senso di marcia del riformismo scolastico.
Se nel 1962, un grande passo avanti era stato fatto con l'abolizione della scuola di avviamento al lavoro e l'istituzione di una scuola media unica, adesso si andava in senso contrario, professionalizzando gran parte della scuola secondaria.
In quei tempi postideologici si era diffusa la sensazione che certi organismi internazionali fossero, non già organizzazioni al diretto servizio del grande capitale internazionale, ma benefiche istituzioni super partes forgiate sul modello della Croce Rossa. In tale contesto, Berlinguer si fece dettare la sua riforma proprio dall'OCSE.
Non occorre una gran scienza per comprendere che la scelta era sbagliata: proprio la constatazione della velocità di incremento delle conoscenze sconsiglia l'inutile inseguimento delle nozioni, una gara che la tartaruga è destinata a perdere contro l'imprendibile lepre.
Meglio, invece, sviluppare le capacità di accedere ai compendi di dati, di saperli esplorare, di sapervi cercare le nozioni, di gerarchizzarle e intersecarle. In poche parole di sviluppare le capacità di analisi e sintesi e le metodologie di base.
Ne deriva quindi, che andava ampliato proprio il periodo di formazione culturale generale, uguale per tutti, e ridotto al minimo lo stadio di formazione professionale, che oltre tutto insegna ai lavoratori di domani i volatili modi di produzione dell'oggi.
Si era dunque sbagliata l'OCSE, suggerendo quel modello d'istruzione?
L'OCSE aveva raccontato balle, ma non si era sbagliata, volendo ottenere proprio ciò che abbiamo sotto gli occhi: sottocupazione, precarizzazione, dequalificazione del lavoro. L'obiettivo del grande capitale è riprodurre nell'ambito dell'istruzione la forbice della disuguaglianza sociale: così come si sta cancellando la classe media dal panorama sociale, in quello dell'istruzione va eliminata ogni categoria intermedia tra il semianalfabetismo e la formazione d'eccellenza.
A compiere il disegno, la soppressione del valore legale del titolo di studio e la conseguente consegna del monopolio dell'istruzione superiore a elitarie scuole private, inaccessibili ai più.
Al di là di quanto affermato, si vuol ottenere, con successivi abbassamenti degli standard, una scuola che prepari a mansioni esecutive, generiche, intercambiabili: il lavoratore, in tal modo, identico al proprio lavoro, nell'alienazione più completa.
Bisogna rispondere tornando alla scuola dell'alfabetizzazione culturale, che dà a tutti il tempo, gli stimoli e il panorama di scelte con cui, per cui e su cui crescere.
Oltre tutto una crescita del livello medio di cultura si tradurrebbe anche in un orientamento dei consumi in grado di determinare un modello di sviluppo diverso, passando dai fast food, i talent show, i reality e i cinepanettoni, alla buona cucina, alla musica, al teatro e al cinema d'autore.

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