sabato 25 ottobre 2014

La buona scuola, per chi e per cosa?

J. Luis Borges finge che in un'antica enciclopedia cinese così venisse classificata la fauna: gli animali si dividono in (a) appartenenti all'Imperatore, (b) imbalsamati, (c) ammaestrati, (d) lattonzoli, (e) sirene, (f) favolosi, (g) cani randagi, (h) inclusi in questa classificazione, (i) che s'agitano come pazzi, (j) innumerevoli, (k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello, (l) eccetera, (m) che hanno rotto il vaso, (n) che da lontano sembrano mosche.
Sembrerebbero le sconnesse associazioni di idee di un delirio, in realtà lo scrittore argentino propone una logica alternativa, che colloca in un oriente fittizio per giustificarne l'affrancamento dall'eredità aristotelica occidentale.



Come si vede, l'enciclopedia non dà nessuna definizione del concetto di "animale", che viene considerato intuitivo.
A partire da questa precomprensione, si procede per logica additiva, inserendo nell'insieme tutto ciò di cui, in quest'ambito, si ha notizia, nella completa assenza di gerarchie logiche e cronologiche.
Nella gran parte delle definizioni le attività del soggetto conoscente si sovrappongono e si sostituiscono all'oggetto che si vuol conoscere il quale viene perciò definito non in base a caratteristiche proprie, ma a quelle indotte.
Se si considera bene, il punto debole della classificazione non è, come si potrebbe pensare a prima vista, nelle omissioni, infatti aumentando la distanza, non c'è animale che sfugga alla categoria n e se anche vi sfuggisse, sarebbe comunque compreso nella l.
Se mai, il punto debole è la ridondanza, infatti, un cane non randagio non sarebbe incluso negli insiemi e, f, g, ma potrebbe appartenere a più di uno di quelli rimanenti.
Questa classificazione serve dunque a ben poco.
Serve a poco non perché non sia, in sé, valida (Kurba, l'elefante dell'imperatore, appartiene di certo, alla categoria a), ma perché non è attendibile.
Se, infatti, in cronache di mano differente si accennasse alla bardatura di un animale appartenente all'imperatore, a quella di un animale ammaestrato o a quella di un animale disegnato con pennello finissimo di peli di cammello, non avremmo gli elementi per comprendere che in tutti e tre i casi ci si riferisce a un elefante.



Una classificazione attendibile non può prescindere dalla definizione dell'oggetto che vuole classificare e ciò presuppone, naturalmente, la depurazione di tale oggetto da ogni aspetto di soggettivizzazione.
Anche i programmi scolastici sono un oggetto da definire e da separare dalle confuse percezioni soggettive.
La scuola di una volta, o la scuola degli anni '70 sono concetti affettivi e non scientifici, sui quali è impossibile intendersi. Eppure, e non da poco, sono stati gli orizzonti in cui si è rinchiuso il dibattito sulla scuola, non solo tra le casalinghe di Voghera, ma anche tra gli insegnanti e persino sulla stampa. Una ministra ci improvvisò sopra una fortunata riforma.
La sciagura, come nell'antica enciclopedia cinese, consiste nella coesistenza. Pur essendoci contrapposizione, paradossalmente non c'è disgiunzione, per cui si può proporre sia il ritorno alla calligrafia, che l'educazione all'affettività gay, e questo crea molto lavoro per le lobby.



Vediamo, dunque di definire questi benedetti programmi.
A quanto pare, la parola programma deriva dal verbo greco προγράϕω, che significa «scrivere prima».
Il vocabolario Treccani ne dà la seguente definizione: enunciazione particolareggiata, verbale o scritta, di ciò che si vuole fare, d’una linea di condotta da seguire, degli obiettivi a cui si mira e dei mezzi con cui s’intende raggiungerli. Più sotto, specifica: piano di lavoro che l’insegnante si propone di svolgere o che le autorità scolastiche stabiliscono venga svolto in uno o più corsi successivi di un dato ordine di scuole, ma questa seconda definizione non ci aiuta, perché rimanda all'attività di un soggetto.
La prima parte della definizione è, però, stringente, non c'è programma senza obiettivi.
Dunque, i programmi di cui parliamo si definiscono a partire dagli obiettivi che si vogliono perseguire, cioè dal chiarimento delle funzioni della scuola. 
La prima questione da chiarire è se la scuola abbia fondamentalmente una funzione educativa, o di istruzione.
Potrebbe avere (e si spera che le abbia) entrambe le funzioni, ma in questo caso andrebbero armonizzate e computate nella valutazione che si dà della scuola, oltre che, naturalmente, in quella che la scuola dà dei propri alunni.
Ma non è così, la dialettica educazione/istruzione è governata da una logica stagionalmente schizofrenica.
La domanda sociale, mediata (o inventata) dalla stampa d'informazione segue degli andamenti ondivaghi, per cui si registrano, in relazione a fatti di cronaca, continue richieste di contenuto educativo (educazione stradale, alimentare, antiomofoba, antixenofoba, antibullismo, antifemminicidio, ...) a cui segue regolarmente, in occasione della pubblicazione dei test PISA, l'imperioso richiamo a una più puntuale attenzione ai contenuti cognitivi.
Ed è poi, unicamente su questi, che, con i test INVALSI, si valuta l'azione della scuola e la formazione degli alunni.



Ma prima ancora di rivendicare la valutazione dell'azione educativa nel valore aggiunto prodotto dalla scuola, bisognerebbe notare che sia su tale piano, sia su quello cognitivo, le sollecitazioni che la scuola riceve non sfuggono alla logica additiva dell'antico zoologo cinese.
L'idea di inseguire tutte le fattispecie morali emergenti dalla cronaca è una vana fatica di Sisifo, il compito della scuola dovrebbe essere quello di fornire delle coordinate etiche da utilizzare in ogni più disparata occasione.
Allo stesso modo è folle pensare di poter insegnare informazioni che si replicano in progressione geometrica, bisogna fornire gli strumenti per cercarle, trovarle e saperle distinguere dalle bufale.
Così non è, e si fa fatica a imbastire un'idea di scuola che vada oltre l'effimero orizzonte della cronaca.
Questo perché ci mancano le due coordinate fondamentali in cui articolare gli obiettivi del programma, il punto di partenza (il bambino) e quello di arrivo (la società).
Se ci manca una definizione di questi due oggetti, diventa fallimentare il progetto di coniugare il presente con il futuro e l'individuale col sociale.



Il punto d'arrivo, cioè la società che si vuol costruire, manca per l'evidente abdicazione a un contenuto ideale della politica, ridotta a governo dell'esistente.
L'assenza di una prospettiva ideale fa si che ogni provvedimento altro non sia se non l'adattamento al presente stato di cose, cioè a una realtà fluida che cambia in tempi più rapidi di quelli della sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
Stanti così le cose, la scuola di domani che si va progettando, sarà magari, ma brevemente, la scuola di oggi, per diventare rapidamente la scuola di ieri.
Ci sarebbe da riflettere sul fatto che, in tempi in cui tutto si soggettivizza e si relativizza, l'unica attività in cui ha senso il punto di vista del soggetto, la costruzione del proprio futuro, sia invece oggettivizzata e resa subalterna ai capricci di un'economia travestita da forza naturale.
La scuola ha dunque una difficoltà a storicizzarsi, iscrivendo i propri programmi in una credibile prospettiva per il futuro. Ma se non si sa dove si va, è invece chiaro da dove siamo partiti. L'unica possibilità della scuola di sottrarsi alle spire del quotidiano è radicare i propri intendimenti nella lettera e nello spirito della Costituzione.



Ci manca, anche, il punto di partenza, il bambino. Una volta ce l'avevamo, che fosse quello tutto fantasia e sentimento dei programmi Ermini, o il piccolo razionalista critico dei Nuovi Programmi del 1985.
Erano, si sa, bambini inesistenti, ma designavano un tipo.
Nella visione cattolico-romantica o illuminista-progressista non si individuava tanto il bambino reale, quanto quello ideale, che si inseriva nelle grandi narrazioni collettive dell'epoca.
Avevano entrambi dei limiti, troppo circoscritto a una lettura superficiale dell'attualità del bambino l'uno, troppo ottimisticamente proteso sulle sue potenzialità l'altro, ma ambedue fissavano un ambito in cui articolare e rendere concreta l'idea di promuovere l'uguaglianza nel rispetto delle singole personalità.
Con le definizioni che ci sono, quando ci sono, oggi, possiamo fare ben poco. Come proporre un percorso tendente a un minimo comun denominatore a bambini che sono talvolta narcisisti senza padre e tal'altra nativi digitali?
Sembra che il bambino dei programmi Ermini e quello dei Nuovi Programmi coesistano (e questo è senz'altro possibile), ma abbiano radicalizzato, facendoli diventare difetti, i propri pregi (e questo speriamo sia impossibile).
C'è un limite antiumanistico in entrambe le definizioni, troppo governato dalle oscure forze dell'Es l'uno, completamente in balia di un Super-io tecnologico l'altro. E l'Io si è perduto.
Difficile fare scuola senza umanesimo.



Nessuno di questi problemi viene affrontato dall'ennesimo intervento governativo sulla scuola.
E', ancora una volta, un provvedimento acefalo che non parte da una seria e ponderata idea di scuola, a meno che non la si voglia ritrovare nella bonomia del titolo, che solletica nostalgie vintage e buon senso da caffè.
Il punto 4, Ripensare ciò che si impara a scuola, parte dalla considerazione sulla necessità di tener conto delle esigenze del brevissimo termine, del lavoro che non possiamo creare oggi.
Questa frase sottintende o un'errore strategico (pensiamo la scuola unicamente in funzione della futura domanda di lavoro) o un errore tattico (pensiamo alla scuola come contenitore per assorbire i disoccupati di oggi).
Proseguendo la lettura ci rassicuriamo, il governo vuole incorrere in entrambi gli errori.
Quanto agli insegnamenti da inserire o potenziare, musica, sport,  storia dell'arte, coding, economia, fino ad arrivare all'idiozia cosmopolita dell'insegnante madrelingua d'inglese, nessuno è sorretto da una seria motivazione didattica o inserito in un disegno complessivo che delinei la fisionomia culturale della scuola che si vorrebbe.
La logica che presiede l'elenco è esattamente quella del fantasioso zoologo di Borges, inserire quello che viene in mente, o meglio quello che si è leggiucchiato sul Sole. 24 Ore.
Non c'è organicità e non c'è progetto, insegnamenti si aggiungono a insegnamenti ed esperti ad esperti. La scuola è chiamata, ancora una volta, a risolvere problemi non suoi.
E' l'ennesima toppa all'abito di un triste Arlecchino. 


domenica 5 ottobre 2014

La scuola dei giocattoli

Torna in circolazione La scuola dei giocattoli di Antonio Rubino.
La ripubblica (cofanetto di 7 albi, € 30) l'editore Scalpendi.












La Hulotte






























La Hulotte è un periodico di storia naturale destinato a un pubblico vasto (dai bambini delle elementari ai ricercatori dell'università).
E' stato fondato negli anni 70 da Pierre Deom, insegnante non troppo soddisfatto del suo lavoro.
Esce due volte all'anno ed è da poco arrivato al numero 100.
La Hulotte non si trova in edicola e neppure in libreria, è diffuso solo per abbonamento e ha 150.000 abbonati, sparsi in tutto il mondo.