sabato 7 luglio 2012

la scuola serve a bocciare?

Sul sito della Revue des Livres appare la trascrizione di una conversazione con il professor Bertrand Ogilvie dell'università Paris-Nanterre, avvenuta nel corso di un ciclo di discussioni dedicato a « L’école, une institution ambigüe ».
Molte delle sue affermazioni non mi convincono, innanzitutto l'idea che il problema di fondo da cui prende l'avvio la sua analisi sia peculiare della società francese e sostanzialmente estraneo al resto della società europea.
Se si parte dall'ipotesi che le bocciature non siano fallimenti della scuola, ma la sua occulta funzione reale, sembra strano che questo possa essere un problema solo francese. In realtà, sia pure con sfasamenti temporali, ovunque si avvertono segnali di riabilitazione di questo strumento di selezione.
In Italia, dove, dopo le lotte e l'elaborazione teorica degli anni '70 la bocciatura era stata sostituita da una non reale promozione (almeno nel senso che dava al termine don Milani), il battage mediatico sulla meritocrazia tende a reintrodurla a furor di popolo, come richiesta sociale. Non crediamo che il problema sia estraneo alle altre scuole europee.
La questione è dunque generale, soprattutto nell'area continentale europea che ha modellato il proprio sistema scolastico sul modello importato dalle invasioni napoleoniche.
Stanti così le cose, cade l'ipotesi che alla base della questione ci sia la legge sulla laicità del 1905. Il confronto con la situazione danese è poco rilevante sul piano scientifico e riguarda, in ogni caso, la piccola parte del continente toccata dall'etica protestante, stretta tra il sud cattolico e l'est ortodosso.
La causa, con mancanza di fantasia marxista, sarebbe dunque meglio individuarla nella necessità del capitale di disegnare una società funzionale ai suoi bisogni. E aggiungerei, più a bisogni  di consumo che di produzione.
Se così fosse, niente di più probabile che all'interno dello scenario globale, affidati i consumi alle borghesie delle potenze emergenti, non ci sia più bisogno di una rilevante classe media consumatrice in Europa e che non occorra più lo strumento per la sua formazione. La scuola, quindi, si trasformerà in formazione, e qui concordo, pur partendo da ipotesi diverse, con le conclusioni di Ogilvie.
Così come concordo assolutamente con la tesi che la scuola abbia svolto e svolga una funzione di costruzione dell'identità.
Ma qui dobbiamo fare i conti con un'espressione che è in sé ambivalente e che ha una dimensione vettoriale che subordina il suo valore al senso di marcia che gli imprimiamo (in-buor; e-duco).
Resta comunque il fatto, sottolineato da Ogilvie, che la costruzione di un'identità subalterna è passata dalla esclusione dalla scuola ad una inclusione marginalizzante.
Vogliamo aggiungere che alle nuove leve di dannati della terra è sottratto, oggi, anche il patrimonio di quella cultura tradizionale di elaborazione popolare che, dal medioevo al XX secolo, era stata parte integrante della loro identità. Oggi, la cultura popolare la fa la televisione, dunque, di nuovo, il padrone.
Parimenti d'accordo nel ritrovamento di Freinet (e magari Bourbaki) come punto di partenza storicizzato per tutte quelle pratiche che smontano il dispositivo dello spazio cartesiano e del costruttivismo elementare.
Occorre aggiungere che l'astro di Freinet tramontò, anche a sinistra, all'alba degli anni '90, in contemporanea con reaganismo e tatcherismo, cioè con l'imporsi di ideologie del capitale.
Ancora Ogilvie solleva un problema storico (la pedagogia progressista si è sviluppata dividendosi, alternativamente, in metodi centrati ora sul gruppo, ora sull'individuo), quando richiama l'attenzione sulla differenza tra la formazione di individualisti gregari e di  individui sociali. È un tema da sviluppare.
Infine è ora che torni in primo piano la critica all'ortografia. La democrazia ha bisogno di gente che sappia leggere, a scrivere si è già in troppi. Ma anche la lettura è un problema, e non solo per le ragioni addotte da Ogilvie, il quale, malgrado le frequentazioni lacaniane non mette sotto accusa l'intero sistema simbolico.
Ma non c'è simbolo che non sia in relazione con il potere.
g. v.