lunedì 27 gennaio 2014

Per Grazia

[in occasione dell'intitolazione dell'aula di scienze della scuola Di Dio a Grazia Rabellotti]

Cara Grazia,
certe volte sembra ancora ieri quel 1983 in cui un bel gruppetto di giovani insegnanti, freschi di concorso, entrarono nella scuola con una gran voglia di fare, di disfare e di cambiare.
Sono passati trent'anni e molto, forse tutto è cambiato, anche se, nel paese del gattopardo, spesso tutto cambia affinché nulla cambi.
Certamente siamo cambiati noi, e non solo fisicamente, come si può ben vedere,  ma soprattutto nello spirito.
Difficile riconoscere in noi i ragazzi entusiasti, speranzosi e ribelli che siamo stati. Non vogliamo o non possiamo più esserlo e qualcuno si è perfino pentito di esserlo stato. 
Fatto sta che ci sentiamo spesso stanchi, delusi, rassegnati, in tal modo assomigliando – e molto – ai vecchi professori brontoloni che volevamo contestare agli inizi della nostra carriera.
Tu, Grazia, che insegnavi scienze, ci spiegheresti che ciò che ci capita è insito nei meccanismi evolutivi – ontogenesi e filogenesi – per cui, gradualmente, dal protagonismo egocentrico dell'infante, si giunge , nella maturità, all'agnizione del ruolo effettivo di comparsa che spetta ai più.
È senz'altro vero, ma Bettina, la tua fedelissima compagna di team, potrebbe aggiungere che nell'ambito delle scienze umane, agiscono però la volontà e la libertà che possono alterare il ferreo determinismo che regna nelle scienze fisiche e matematiche.
Mi piace pensare che questo discorso, o qualcosa di simile, lo abbiate fatto davvero, in sede di programmazione, per mettervi d'accordo su come affrontare con i vostri alunni, nell'ottica dell'unità del sapere, le difficoltà cognitive che deriverebbero, in una separazione rigida degli ambiti disciplinari, da un'apparente dottrina della doppia verità.
Ma se lo avete fatto, lo avete fatto certamente nel secolo scorso. Quando ancora le programmazioni si facevano come si deve. E dico questo, per tornare alla nostra attuale stanchezza. 
Abbiamo, naturalmente – dalla Falcucci alla Gelmini – delle ottime scuse.
Ma come insegnanti dovremmo diffidare del principio di imputazione, cioè di quel fenomeno, familiare alle colleghe dell'infanzia, per cui il bambino piccolo picchia lo scivolo cattivo che gli ha fatto male. È un principio che persiste, mutatis mutandis, nell'età adulta, quello – per intenderci – per cui le nostre famiglie borghesi vorrebbero risolvere i problemi di una classe difficile, eliminando le “mele marce” o quello per cui le nostre famiglie sottoproletarie addebitano a qualcun altro – gli extracomunitari o le influenze astrali – le difficoltà di organizzare la loro esistenza.
Agli uni e agli altri cerchiamo di spiegare che, nella complessità dei fatti sociali è buona cosa cercare, di assumerci le nostre proprie responsabilità, prima di andare a cercare quelle degli altri. Cerchiamo di attenerci anche noi a questa buona regola.
E dicevamo, delle programmazioni. 
Io credo che vogliate darmi atto che, negli ultimi tempi, nella stragrande maggioranza dei casi, le riunioni di programmazione assomigliano sempre meno al confronto di un team e sempre di più al briefing di uno studio associato, dove ogni professionista formalizza il suo parcellizzato contributo, con scarsa osmosi reciproca.
Ce ne accorgiamo, e pensiamo che sia un effetto di quella stanchezza e di quella delusione di cui si diceva all'inizio.
E se, invece, ne fosse la causa?
Ancora Grazia, che insegnava il metodo scientifico ai suoi bambini, potrebbe venirci in soccorso e dirci: Ehi, ragazzi! Sapete cos'è successo? È successo che prima, come Galileo nel gran libro della natura, anche noi sapevamo leggere, nella realtà delle nostre classi, le ansie, le speranze e le aspirazioni della più vasta realtà sociale, cercavamo di interpretare i dati e di costruirci sopra un coerente progetto didattico e pedagogico. Adesso, invece, più Bellarmino che Galileo, vogliamo vederci riflessa, a tutti i costi, la verità che apprendiamo dalla televisione, dai giornali, da internet. Alla nostra analisi, abbiamo sostituito la sintesi altrui. Ecco cos'è successo.
Eh già, Grazia, il metodo scientifico: osservazione, ipotesi, verifica. È così che si fa una buona programmazione. È così che le nozioni, temperate alla fiamma della realtà concreta diventano carne viva, stimolo, problema da discutere. Viceversa, ridotte ad astratte formulazioni, sono arido e ostico nozionismo. E i bambini vanno male a scuola, e noi siamo stanchi e delusi e ci consoliamo dando la colpa al governo, alla globalizzazione, alla latitanza dei padri, alle mezze stagioni che non ci sono più.
Grazia alla collegialità ci credeva. Ricordo interminabili, ma appassionate, programmazioni di circolo. Lei ascoltava pazientemente torrenziali oratori, poi – quasi timidamente, o forse solo con molta educazione, chiedeva la parola e con le sue osservazioni, sempre molto pertinenti e meditate, talvolta incrinava quelle che ormai sembravano verità assodate. Allora, la discussione ripartiva da zero. E si faceva una buona scuola.
Per questo vorrei che, almeno quel gruppetto che, dopo il concorso, venne a insediarsi, più o meno stabilmente, in quello che allora si chiamava sesto circolo, prendesse oggi un impegno, affinché il ricordo di Grazia non sia solo di circostanza, ma diventi quotidiana testimonianza del suo modo sereno di concepire e fare scuola.
Il suo ricordo ci sia di stimolo per rinvigorire le nostre radici e rinnovare l'impegno che ci siamo assunti allora, in modo che, un giorno si dica; be', quei ragazzi non sono riusciti a cambiare troppo il mondo, ma non hanno permesso al mondo di cambiare troppo loro.
Sei del nostro gruppo, Grazia, e qualcosa di te resta qui con noi, a darci una mano.











sabato 4 gennaio 2014

CONTRIBUTO A UNA CRITICA ALLE INDICAZIONI NAZIONALI PER IL CURRICOLO

Da molto tempo nelle scuole, il collegio docenti, ormai ridotto a disciplinata chambre octroyée dell'autonomia, non discute più le disposizioni imposte, considerandole neutrali procedure tecniche. In realtà esse sono, quasi sempre, atti di indirizzo politico che intervengono sulle funzioni della scuola e degli insegnanti. Sono interventi progressivi e quasi indolori che tendono gradualmente a snaturare tali funzioni. Ogni passo è la premessa, e la legittimazione di quello successivo. Del guaio ce ne accorgeremo a cose fatte. 
Vale perciò la pena di sottoporre ad analisi i documenti ministeriali, per metterne in luce una filosofia, farcita di senso comune, che spesso contrabbanda affermazioni apodittiche spacciate per ovvietà incontestabili.
In molte scuole ci sono state riunioni per applicare le Indicazioni per il curricolo della scuola primaria, quasi in nessuna si sono discusse le premesse delle indicazioni che, accanto a formulazioni accettabili, danno per scontato un quadro concettuale generale che non è, come si pretenderebbe, universalmente accettato.
Di seguito, qualche critica al primo paragrafo: la scuola nel nuovo scenario.

1. L'equilibrio e i suoi contrari. Probabilità e imprevisti
Il documento si apre con una doppia mezza bugia. Al concetto positivo di stabilità si oppongono, come falsi contrari, due concetti altrettanto positivi o neutri: cambiamento e discontinuità. Il trucco è evidente, il contrario di stabilità è, infatti instabilità, come può verificare chiunque, divertendosi ad applicare la coppia degli aggettivi derivati a sostantivi quali: equilibrio, salute, reddito, condizioni del tempo, ...

La bugia si rafforza successivamente, affermando che tale cambiamento, come nel gioco del Monopoli è si, moltiplicatore di rischio, ma anche di opportunità.

Qui non si fa che ripetere lo slogan con cui si è voluto far digerire la pillola amara dei cambiamenti in oggetto. Ma sappiamo che non è così: mentre i talenti, come Edith Piaf o Gianni Riviera, emergevano anche nella vecchia società stabile, tutti gli indici disponibili ci invitano a concludere che in questa sedicente società delle opportunità, la mobilità sociale è a zero e i posizionamenti di status si riproducono identici da una generazione all'altra. 
Notiamo poi che gli asseriti cambiamenti vengono presentati come eventi cosmici prodotti da cause naturali e non si fa cenno sulla logica del profitto – non più mediata da considerazioni morali o intellettuali – che li ha, in realtà, determinati.

Questo incipit ci ingenera il sospetto di trovarci alle prese di un ulteriore passo avanti nel processo già in atto di subordinazione delle funzioni della scuola a tale poco nobile logica. 

Excursus 1, probabilità e imprevisti: confrontate le compatibilità delle affermazioni del primo capoverso con questi dati.

2. Nascono già imparati
Nel secondo capoverso si ribadisce il ritornello mediatico, abituale e indiscusso, che ha accompagnato la rivoluzione informatica, fingendo di ignorare l'utilizzo sostanzialmente ludico che ha caratterizzato la diffusione dei nuovi strumenti.


Rispetto all'enorme disponibilità di informazioni e competenze acquisibili altrove, alla scuola resterebbe il ruolo di sistematizzarle, gerarchizzarle, metterle in relazione.
In realtà non è affatto così: non è il mezzo a determinare efficacemente il proprio uso. I libri sono inutili a casa di un analfabeta. 
L'accesso alle informazioni garantito dai nuovi media non è di per sé né istruttivo, né educativo. La fruizione è filtrata attraverso gli strumenti culturali propri del contesto di cui il bambino fa parte e pseudoscienza, irrazionalismo, deformazioni e visioni anguste del mondo si diffondono sempre di più, assieme ai più banali errori di interpretazione, alle bufale, alle leggende metropolitane. Le informazioni sono tante, ma non sempre le si sa scegliere e comprendere e una nuova forma di analfabetismo avanza. Sempre più spesso i nuovi mezzi si prestano a un uso devastante sul piano morale e psicologico.

Non è dunque la scuola – come si vorrebbe – a dover assumere un ruolo ancillare nei confronti dei nuovi media, ma sono semmai questi che –  tornando ad essere ciò che sono, semplici strumenti – devono essere subordinati alle esigenze didattiche e pedagogiche della scuola. 

Excursus 2, competenze specifiche: riflettete sulle affermazioni del secondo capoverso, confrontandole con questi echi di cronaca.

3. L'Edipo orfano
Qui sembra ribadirsi il concetto di un'abdicazione alla funzione educativa da parte delle delle famiglie. Curioso come nessuno noti che questa percezione sia rimbalzata, da una generazione all'altra sin dai tempi più remoti. Ai miei tempi … lo hanno detto i nostri padri, i nonni e i nonni dei nonni. La percezione di irrimediabile decadenza non fa che registrare la normale e necessaria evoluzione di norme e rapporti. In realtà, nel passare dal voi al tu, l'autorità paterna non si è necessariamente dissolta.
Del resto, auctoritas deriva da auctor, e come tale si differenziava dalla potestas e forse non è un caso che, nei conflitti educativi che oppongono talvolta, scuola e famiglia, questa lamenti proprio una supposta lesione dei suoi diritti d'autore.
Probabilmente e qui che si deve cercare la ragione del particolare vuoto educativo che lamentiamo: non latitanza della famiglia, come frettolosamente si suppone, ma estrema parcellizzazione di stili e precetti educativi, perfettamente connaturata a una società che è stata voluta fortemente individualista.
Nell'affermare che questa crisi educativa sia conseguenza del nichilismo nel quale precipita la ragione quando si distacca dalle sue fonti trascendenti, il filosofo cattolico Augusto Del Noce non fa riferimento ad un'immaginaria età dell'oro, ma a una concreta realtà storica di lunga durata. 
Nel 900, l'individuo si determinava attraverso l'appartenenza sociale, religiosa, politica, cioè a un reticolo di insiemi collettivi che determinavano, anche, sistemi valoriali. Dall'accettazione, o rifiuto, dei valori predominanti (che erano trascendentalmente fondati) derivavano, quindi, norme coerenti e non già anomia.
Viceversa, oggi, anche quando il soggetto, rivelando smarrimento e solitudine nella nuda condizione di individuo, cerca di essere riconosciuto come qualcos'altro, il riferimento è a insiemi (etnia, genere, orientamento sessuale) onnicompressivi sul piano sociale, religioso e politico, l'appartenenza ai quali non dà coordinate etiche, ma anzi, genera relativismo.
Diventa così difficile, per la scuola, proporre orientamenti generali in base ai quali affrontare i casi particolari.
La scuola, sempre di più sembra impegnata nella fatica di Sisifo di fornire risposte alle emergenze del momento, in continue campagne suggerite dai casi di cronaca e dalla rilevanza mediatica che assumono.

4. macrocosmo e microcosmo

Curiosamente, la complessità postmoderna trova come strumento esplicativo il concetto premoderno di microcosmo.
La globalizzazione non è un modello concreto a cui le singole realtà si adeguano, ma un'astrazione che mette insieme sbiadite analogie degli effetti, molto diversi tra loro, che la libera circolazione di capitali, merci e forza lavoro ha prodotto sulle pregresse strutture economiche e sociali di ogni singola realtà. 
Per restare a noi, il nord è ancora differente dal centro e dal sud, la città dalla campagna, le metropoli dai paesi. Nella stessa città c'è differenza tra centro e periferia, tra quartieri residenziali e ghetti. Se i problemi possono, qualche volta, assomigliarsi, il modo di affrontarli e le soluzioni adottate differiscono fortemente.
Le indicazioni si confermano mosse da un impianto filosofico debole e ideologico, si finge di analizzare i fatti che in realtà vengono deformati in un ottica di parte che si spaccia per oggettiva.

È dunque doveroso che sia il sospetto a guidarci nell'ermeneutica del passo successivo.

5, scuola e costituzione
Nel combinare a piacere gli articoli della Costituzione, qui si delinea una nuova funzione della scuola, che passa dalla formazione dell'individuo a quella di addestramento di lavoratori. L'accenno alle formazioni sociali è chiarificatore, allude a padroni e padroncini, a sindacati interessati al business della formazione gestita da enti bilaterali e alle amministrazioni locali, di vario grado, che su tutto ciò, in concerto con l'UE, lucrano.
Per arrivarci, si gioca in modo infame con le parole. 
A proposito dell'uguaglianza, ci si dimentica della necessità di assicurare un'uguaglianza delle condizioni di partenza, giacché essa viene messa subito in relazione con il rispetto delle differenze e delle identità di ciascuno. Ma le differenze e le identità che si vogliono rispettare non sono, come pensiamo noi, quelle culturali, ma quelle che si pretendono naturali.
Infatti il passo prosegue richiamando l'attenzione non solo sulle disabilità, ma anche su ogni fragilità. Non c'è nessun accenno sul fatto che queste ultime possano avere un'origine sociale e possano quindi essere rimosse o sensibilmente ridotte.

In pratica qui si dice che ci sono degli inferiori, la cui libertà e uguaglianza consiste nel poter fare un lavoro alla loro portata e che compito della scuola è certificare tale inferiorità.
Sulle generiche affermazioni che vengono dopo, si può anche, proprio in virtù dell'assoluta genericità, convenire, ma non deve sfuggire che in esse non si delinea mai l'idea che si stia formando delle donne e degli uomini completi, ma solo dei futuri lavoratori che pertanto vanno forniti esclusivamente di competenze e possono fare a meno del senso critico.

Ciò porta a una conclusione con cui occorre radicalmente dissentire:
Non bisogna farsi trarre in inganno, qui non si parla di percorsi didattici individualizzati, cioè di percorsi rispettosi dei tempi di apprendimento di ciascuno, ma di individualizzazione dei contenuti dell'apprendimento.
Si ribadisce, cioè, la necessità di una selezione precoce che li commisuri alle supposte capacità dell'individuo. Per alcuni si potrà rinunciare a qualche obiettivo.

La vecchia idee delle classi differenziali viene applicata all'intero sistema scolastico.
Quindi, mentre da molte parti si afferma che l'infanzia duri di più e la maturazione degli individui avvenga più tardi, si vorrebbe legare l'intera formazione, cioè il destino, di ognuno ad inclinazioni manifestate in età davvero acerba.
Eppure proprio la premessa, che sottolineava l'oggettiva impossibilità di un inseguimento della realtà sul piano delle nozioni, avrebbe dovuto far inclinare verso una scuola orientata a formare più metacapacità che capacità, cioè a proporre una Bildung o Paideia funzionale a fornire a tutti, tutti gli elementi per operare libere scelte. 

Sebbene qualcosa di simile venga affermato poco più oltre, l'impianto culturale della premessa ci induce a prenderle per affermazioni di rito, poco congrue con il senso generale del discorso, al quale sembra culturalmente estranea anche la citazione finale della Costituzione.

excursus 3, qual'è la scuola democratica? confronto tra due immagini.