martedì 2 gennaio 2024

Il giorno in cui divenni comunista

 

1961. Avevo dieci anni. Mia madre, per un suo qual spirito ugualitario, ci imponeva il doposcuola, di norma riservato ai poveri e agli orfanelli del Dominioni.

Nel grigio autunno padano, allora generoso di nebbie fitte e, come sempre, avvezzo a intempestivi tramonti, stare in quell’aula, mentre scendeva il buio, era qualcosa d’indicibile tristezza.

Ma il maestrino di Barengo, indossava una giacca di velluto nero che lo faceva assomigliare a uno di quei patrioti del Risorgimento, di cui studiavamo le gesta, in quell’anno del centenario, e aveva la faccia allegra, senza contare che asseriva esser amico di Boniperti.

Ci faceva fare dei giochi. Interdetto, per freddo e scarso corredo invernale dei miei compagni, il cortile, dove, in qualsiasi impresa sportiva, quei malnutriti, ma al contempo agili e forti, si sarebbero disputati i premi, lasciandomi buon ultimo, ripiegava sui quiz di cultura generale, dove ovviamente trionfavo, guadagnandomi un’antipatia quasi generale. Passò, quindi, tutto sommato, l’autunno e anche l’ancor più cupo inverno, e venne, infine, la primavera.

Reso agibile dai primi tepori, il cortile restava interdetto per autocratico decreto del Direttore Didattico, malfido della combriccola di fuorilegge in erba ch’era il nerbo delle unificate VA e V B del prolungato orario pomeridiano. Ne temeva l’evasione o, peggio, la propensione al danno alle vetrerie, di cui avevano dato copiose dimostrazioni.

I termosifoni, per burocratico dispositivo, continuavano a scaldar l’ambiente, sebbene dalle ampie finestre di razionalistica ispirazione architettonica, il sole filtrasse amplificato nella gamma degli infrarossi

Ciò non sembrava esser d’eccessivo fastidio per i miei compagni di pena, che ancora esibivano nelle orecchie – e lamentavano nei talloni – i geloni della recente indigestione di freddo, di cui si spartivano equamente le responsabilità, la loro libidine d’aria aperta e l’inefficienza d’un uso parsimonioso delle domestiche cucine economiche. Ma a me, quell’aria secca inaridiva la gola e metteva sete. Per fortuna il maestrino, più democratico dei colleghi diurni, ci permetteva di andare ai servizi con liberalità, senza esibirci nell’invereconda pantomima – mani premute sui genitali, viso contratto in spasmodiche smorfie, a significare un irrefrenabile bisogno – formalmente disapprovata, ma di fatto pretesa, da Malinverni e Guglielmetti.

Così, chiesi d’uscire.

Ci doveva essere carenza di pressione. Dopo aver girato, invano, il rubinetto nel verso giusto, mi provai a ripetere l’operazione all’inverso. La manopola, in tal modo svitata, mi rimase in mano.

Fu il panico. Mi figuravo l’ira dell’irascibile Direttore, immaginavo fatture con sfilze di zeri nelle mani di mio padre. Lasciai il rubinetto nel lavandino e tornai di corsa in classe, augurandomi che il patimento della sete, che ora mi pareva stesse varcando i confini dell’umanamente sopportabile, potesse essere bastevole espiazione della malefatta.

Dopo di me, chiese d’uscire Tartarini.

Vittorio, Gerry, Tartarini, in seguito mio buon amico di gioventù, era allora ospite del Civico Istituto Dominioni, donde sarebbe poi passato – quasi senza soluzione di continuità – alla più ferrea custodia del minorile Ferrante Aporti. Ed era un sorvegliato speciale.

Lo spiai al rientro, ma che fosse uscito per incombenza che gli avesse fatto trascurare i lavandini o che fosse ormai aduso alla più tenace omertà, nulla notai sull’espressione del suo viso che potesse denotare agnizione del mio consumato sabotaggio.

Passò del tempo, non potrei dire quanto, poiché, nel mio stato d’angoscia, ogni minuto sembrava eterno. Poi si verificò la scena che, fino a quel momento, avevo temuta, immaginata, anticipata.

La porta si spalancò con prepotenza. Nel vano si inquadrò per un attimo, fremente di stizza, la sagoma dello stizzoso Direttore. Poi, questi, con due ampie falcate, s’appropinquò alla cattedra dell’allarmato maestrino. Con tono brusco, s’informò su chi fosse uscito dalla classe.

Il maestro, accennò a me: «Veronica – disse, e indugiò un attimo, poi, come se gli fosse sovvenuto in mente tardivamente, completò – e Tartarini».

A quel «Veronica», mi si era raggelato il sangue nelle vene, ma mi ero ormai rassegnato alla mia sorte, e quasi me ne sentivo sollevato, qualsiasi castigo sembrandomi preferibile all’attesa. Fui, dunque, colto di sorpresa quando il Direttore, senza la minima esitazione, voltosi a un Tartarini stupefatto e incredulo, lo invitò, con gesto imperioso, a seguirlo, e con lui varcò, senza formalità di congedo, l’uscio della classe.

Neanche per un istante, l’equivoco mi era stato di sollievo, anzi, compresi subito che qualcosa dovevo fare per sventare quell’orribile errore giudiziario che s’andava profilando, ma quel tempo, che fino a quel momento sembrava non passare mai, si era messo, ora, a correre all’impazzata.

Cosicché, prima che mi fossi risolto all’iniziativa, la porta fu nuovamente spalancata, con vieppiù vigore, per lasciare entrare un Tartarini in lacrime che, subito, si mise a radunare le sue cose e a riporle nella cartella.

Il maestro, con affettuosa apprensione cercò d’informarsi, ne vennero fuori poche parole frammiste a singhiozzi: «... sospeso ... chissà cosa mi faranno in collegio ... gabinetto allagato ...»

Si seppe poi che, tornata alla norma la pressione, l’acqua aveva cominciato a fluire da quel rubinetto da me manomesso e che solo tardivamente il bidello – nighittoso fantasma che trascorreva le giornate in qualche segreto stambugio, inaccessibile ai più – s’era accorto della (assai modesta) pozza d’acqua formatasi sul pavimento.

Non aveva ancora finito di dire, il Tartarini, che già il bidello veniva a informare che uno dei cerberi dell’Istituto – a un tiro di schioppo dalla scuola – era venuto a prenderlo.

Non indugiai oltre, mentre Tartarini varcava la soglia, andando incontro al suo destino, mi ero precipitato dal maestro, rendendo rapida e pubblica confessione delle mie responsabilità.

Una ruga di preoccupata attenzione solcò la fronte del mio immaginario mazziniano. «Dobbiamo andare dal direttore», disse, e a me parve Pisacane che mi proponesse di salpar per Sapri. E ciò mi rincuorò.


Durante la discesa delle scale che portavano alla Direzione, le gambe mi tremavano un poco. Era il dottor Lazzarini – alfiere non secondo del clerico-fascismo cittadino, capeggiato da Oscar Luigi Scalfaro e Cronilde Musso – il terrore di grandi e bambini della Scuola Elementare Antonio Rosmini. Perfino i ragazzi del Dominioni, adusi ad esser malmenati da qualsiasi adulto, chierico o laico, avesse a che fare con loro, lo temevano e, possibilmente, lo schivavano. Bussammo alla porta, una voce brusca rispose, avanti! La stanza mi sembrava enorme. In fondo, rischiarato dall’ampia finestra alle sue spalle, sedeva il Direttore Didattico, immerso nella lettura di importantissime carte. Sembrava ignorarci. Mi volsi al maestro, in cerca d’incoraggiamento, ma anche lui sembrava impaurito. Poi, il Direttore sollevò per una frazione di secondo il suo sguardo su di noi, mentre con l’indice e il medio della mano destra, con cui reggeva il fascio di compulsate carte, faceva cenno d’approssimarsi. Ci approssimammo. Il maestro, con meno di sette parole, introdusse l’argomento, senza tediare con appelli alla clemenza, e subito mi cedette la parola. Dissi quello che dovevo dire tutto d’un fiato, a un interlocutore che sembrava assolutamente non interessato, e reimmerso nello studio delle sue pratiche. Seguì quello che mi parve un lunghissimo silenzio. Poi parlò, con il suo consueto tono acido: «Visto che non hai fatto apposta, per questa volta, puoi andare». Non aggiunse altro, tornò a dedicarsi ai suoi documenti. Eravamo congedati. Mentre ci avviavamo all’uscita, rivolsi uno sguardo interrogativo al maestro, e lui – che aveva compreso il mio pensiero, tentennò il capo, a sconsigliare ulteriori ardimenti. Ma non seppi trattenermi. Feci un rapido dietro front e, facendo appello a tutto il mio residuo coraggio, a voce alte, domandai: «E Tartarini?» Alzò lo sguardo da quei suoi fogli, balenò nei suoi occhi un lampo luciferino, poi disse – e nella sua voce palpitava indignazione per la mia sfrontatezza, noia per l’argomento e compiacimento per la propria arguzia: «Tartarini, se non merita il castigo per questa faccenda, se lo meriterà di sicuro per qualche altra». E agitando nell’aria le quattro dita della mano mi spazzò dalla sua presenza.

Ero interdetto, ma il maestro, a scanso di altri colpi di testa, mi afferrò per la spalla e mi spinse a varcare frettolosamente la soglia.

Finivo la V elementare, avevo appreso, in qualche modo, a leggere, scrivere e far di conto, ma avevo imparato bene cos’era il classismo. Quel giorno seppi di essere un comunista.

g.v.

P. S. Rividi per l’ultima volta Vittorio alla Pavesi, alla fine degli anni 70, ero operaio di linea e lui era il mio delegato di reparto. Era già malato e morì ancor giovane.