domenica 2 marzo 2014

Tutto da rifare sul fronte della scuola

Sul fronte della scuola, a quasi mezzo secolo dal 68 è tutto da rifare.
Possiamo dare la colpa ai vari ministri, partendo dalla Falcucci e arrivando alla Carrozza, passando per Lombardi, Berlinguer, Moratti, Fioroni e Gelmini e tutti gli altri.
Ma la colpa è essenzialmente nostra, dove, con noi, intendo quei giovani insegnanti cresciuti nelle istanze libertarie e rivoluzionarie del 68.
La nostra disattenzione, la nostra pigrizia, il nostro invecchiare ci hanno visti soccombere a fronte di un doppio movimento che avremmo dovuto prevedere, identificare, combattere.
Il primo, un vero e proprio piano inclinato, fu l'accettazione del vincolo della "realtà". Avremmo dovuto restar fedeli alle nostre parole d'ordine e volere l'impossibile.
Invece, il tempo pieno - da forma di lotta - divenne istituzione, non si mangiò più nelle classi, finirono le corvée che decostruivano, meglio di qualsiasi predica, i ruoli di genere e il momento educativo si trasferì nei refettori, riproponendo le bolge infernali dei doposcuola degli anni 50, dove diviene istantaneo monopolio comportamentale il catalogo delle cattive maniere a tavola e si sporca dappertutto, per lasciar pulire a cuoche e bidelle. 
Era già un incubo, a cui dovevano aggiungersi i doppi e i tripli turni.

Ma anche con questo neo, il tempo pieno, rimaneva il modello di una scuola senza compiti a casa, dove non si rimandava alla capacità delle mamme l'onere della riuscita scolastica dei bambini.
Non solo, con un adeguato sistema di laboratori, si potevano trasmettere le conoscenze utilizzando strumenti non eslusivamente linguistici e garantendo all'autostima dei bambini altri terreni di gioco che non fossero il dettato, l'analisi logica, le operazioni e le tabelline.
Ma anche tutte queste cose dovevano sparire.
Negli anni 90 avvenne una vera e propria rivoluzione dei paradigmi di riferimento.
Alla scuola serena, centrata sulla dimensione affettiva e che utilizzava la collaborazione, la ricerca collettiva, i problemi, si sostituì una scuola ansiogena, centrata sull'istruzione, che utilizzava la competizione, lo studio individuale, le soluzioni.
Fu una scelta politica travestita da oggettività tecnica, meccanismo che doveva diventare il cavallo di Troia con cui, passo dopo passo, quasi impercettibilmente, si arriverà al completo snaturamento della scuola.
Ci cascò anche l'MCE e Bruner sostituì Freinet. Fu lì che iniziò la subalternità culturale, che dura a tuttoggi, di insegnanti ormai incapaci di chiedersi: ma chi lo ha detto? ma a chi giova?
Naturalmente, complici anche - in attesa dell'impresa - informatica e inglese, qualche piccolo compito a casa divenne indispensabile. pazienza se qualche mamma non lo sapeva fare o far fare.
Ma soprattutto in un siffatto tipo di scuola, la soggettività dell'alunno cedeva il passo all'oggettività delle sue prestazioni, mentre la sua individualità prendeva il posto delle dinamiche collettive. L'educazione diventava di competenza della disciplina e le difficoltà prendevano la strada discriminante del recupero e del rinforzo.
Questa concezione imbastardita dell'individualizzazione era funzionale a una precoce selezione - giunta al suo momentaneo apice con gli odierni BES - per separare tempestivamente i destini di chi proseguirà l'istruzione da quelli di chi sarà avviato,invece, alla formazione (per un lavoro che non c'è).
Le recenti Indicazioni nazionali per il curricolo sono sottilmente esplicite a riguardo e si spingono a far derivare dal dettato costituzionale l'infame intento.
Una prima ricaduta di questa svolta fu, come era ovvio, sulle riunioni di programmazione. Una volta che le difficoltà, educative e didattiche, sono ridotte a devianze, per le quali vengono messi in atto i dovuti protocolli, l'insegnante lavora per gli standard e il gruppo ne diventa sommatoria. La discussione collegiale perde di senso e il maestro si limita a vergare sull'apposito registro gli argomenti che intende affrontare.
Le riunioni del team tendono così, sempre di più a somigliare a breafing di uno studio associato di professionisti, ognuno dei quali svolge il compito di sua pertinenza.

Al mutato quadro concettuale si aggiunsero, ben presto, opportuni e sinergici provvedimenti amministrativi.
Saltarono le compresenze e fu giocoforza dare un bel taglio al sistema dei laboratori.
A questo punto, l'eversivo tempo pieno era bel che snaturato: una scuola doppia, con doppi, se non tripli, compiti, ambita più per necessità di custodia che per meriti pedagogici.
Quando, oggi, difendiamo il tempo pieno, il più delle volte difendiamo una simile scuola di 40 ore, faticosa e ormai impotente al riequilibrio delle disiguaglianze.

Ma questa restaurazione dell'egemonia borghese sulla scuola, con riduzione dell'insegnante a sua vestale, non sarebbe stata possibile se, parallelamente non ci fosse stato un secondo movimento, ovvero quello di un'analoga riconduzione a schemi borghesi del pensiero critico e antagonista.
Alla buona fede dell'insegnante "di sinistra", logorato da una lunga e infruttuosa guerra di posizione e dallo stallo ideologico determinato dal crollo del blocco socialista, doveva essere offerta una via di fuga che gli permettese, nel suo specifico, di ritenersi ancora dalla parte giusta.
Provvidi avvenimenti vennero in soccorso.
Berlusconi, che acquistava le indulgenze finanziando la scuola privata (ma, in realtà aveva cominciato a farlo, per primo, un governo di centro-sinista) offrì il primo argomento: la difesa della scuola pubblica.
La globalizzazione, chiamiamola ancora così, scatenando un movimento biblico di migrazione, offrì il secondo: l'opportuna "accoglienza" dei bambini degli immigrati, una necessità dettata dal buon senso che diventava opzione politica in ideale contrasto con la xenofobia volgare, e a volte brutale, della destra.
Questo secondo argomento apriva la strada all'infinita miniera delle diversità, solleticando l'insegnante progressista all'elaborazioni di programmazioni ad hoc, in funzione dell'esorcizzazione dei più vari pregiudizi.
In questo si concentrava l'esser progressista dell'insegnante, mentre l'autonomia scolastica lo trasformava in affittacamere, pronto ad aderire a qualsiasi sconclusionato "progetto" che portasse qualche euro alle casse della scuola.

Ma questo modo di "essere di sinistra" come si riflette sul suo "far scuola"?
Evidentemente, nessun riflesso potrà esserci del suo esser laico, limitandosi tale professione all'assunzione di atteggiamenti che, variamente commentati da genitori e alunni, nulla o quasi possono produrre sul piano didattico.
Ma anche la seconda questione non porta da nessuna parte. Esaurita la fase dell'accoglienza, in cui l'insegnante democratico si differenzia dal collega reazionario solo per il grado di autentica empatia che ci mette, la maggior parte degli alunni così ben accolti, in una scuola che accetta le diversità, ma non rimuove le disuguaglianze, è destinata alla trafila rinforzo/recupero/BES che annega nel senso di emarginazione e rifiuto le speranze accarezzate dall'accoglienza.
Quanto alla lotta ai pregiudizi, anche lì la produttività è ben scarsa. Da che mondo è mondo, catechismi e galatei, per quanto imparati a memoria, hanno sempre lasciato il tempo che trovavano. 
Le capacità educative di un'istituzione non risiedono nella trasmissione di un'infinità di precetti comportamentali, ma nel far acquisire un atteggiamento generale al vaglio del quale operare scelte negli accadimenti esistenziali.
Tale atteggiamento dipende quasi esclusivamente dal riconoscimento dell'autorevolezza dell'istituzione, che discende a sua volta dalla qualità del rapporto instaurato.
Nessuno si fa insegnare ad accettare gli altri da una scuola che non lo accetta.
Per tale ragione, dove più ce n'è bisogno, nei quartieri popolari e nelle periferie urbane, le parole della scuola restano lettera morta e i piccoli, italiani e stranieri - parcheggiati nei banchi degli asini -, crescono più integralisti o xenofobi, omofobi e maschilisti dei loro genitori.

Tutto da rifare, dunque, e occorre ripartire dai meccanismi di selezione - che hanno una chiara connotazione sociale - e da lì tornare a proporre il tema dell'uguaglianza come obiettivo da raggiungere.
Abolire i voti nella scuola primaria, potrebbe essere un primo passo.