domenica 8 settembre 2013

si torna indietro

Dietro l'apparente neutralità di una tecnica si cela un disegno autoritario e disumanizzante di restaurazione:
Vacarme

Buttati!


Ancora una volta, un adolescente ha scelto di togliersi la vita gettandosi dalla finestra.
In questo ultimo caso, la ragione sarebbe stata la sua presunta scelta omosessuale, non condivisa da familiari e amici.
Omofobia e bullismo, etichette tanto comode, quanto vuote, sono state, al solito, evocate, per trovare un responsabile del tragico gesto. 
Dare la colpa a qualcuno, di tutto ciò che ci accade, vuol dire ricorrere a quel principio di imputazione che un tempo era riservato alla prima infanzia e agli stadi avanzati dell'alcolismo.
Adesso, è ragionamento corrente, avvallato dai più autorevoli mass media, nel quale si cela uno di quei trucchi che dimostrano la grande capacità del potere di rigirare le frittate.
Giacché abbiamo speso un paio di secoli, per scoprire che, dietro alle responsabilità individuali agiscono forti condizionamenti sociali, si è pensato bene di indurre a una identificazione tra sociale e ambientale, addebitando così eventuali colpe, non alla società nel suo complesso, ma a un gruppo di individui in qualche modo prossimo all'evento considerato.
Così si ottiene il capolavoro di assolvere un ragazzino, per condannarne un altro.
Vediamo allora, per una volta, di tentare di vedere se ci sono responsabilità realmente sociali, in questa tragedia.
Intanto bisogna dire che 14 anni sono pochi per compiere scelte definitive, e qui non mi riferisco solo all'irrevocabilità della morte, ma anche a tutte le altre opzioni, identità sessuale compresa, che si possono accarezzare nella temperie dell'adolescenza.
Il discorso è scivoloso, ma non eludibile: negli anni '50, quando l'omosessualità era socialmente riprovata, un ragazzino avrebbe tenuto nascoste certe sue pulsioni, rimandando il più possibile l'inevitabile, e a quei tempi tacito, outing. Il percorso era tutt'altro che indolore, ma liberava del tempo in cui, non di rado, l'oggetto di desiderio svaporava come ultimo residuo di infantile polimorfismo. 
Nel caso opposto, la presa di contatto con la comunità omosessuale, sia pure nelle forme spesso umilianti della clandestinità, funzionava in qualche modo come relativamente pacificatore rito di iniziazione. Diluendo il proprio io nelle maglie collettive di una sottocultura, alternativa o addirittura antagonista, si rielaboravano le proprie ragioni, si stemperavano le ansie, si acquisivano strumenti critici rispetto alla cultura dominante. Così funzionava, eroico, sarcastico e materno, l'inconsapevole movimento gay di allora.
Questo non vuol naturalmente dire, che fosse meglio prima, perché, non dimentichiamocelo, si parla di un'epoca odiosa di discriminazione e segregazione, di dileggio sistematico, di impunita violenza, in cui il processo sopra descritto di accettazione del sé, in un contesto di universale rifiuto, si realizzava individualmente attraverso un autentico calvario, con funzioni di drastica selezione naturale. 
Ma nel momento in cui, la sancita accettazione di un comportamento prende il posto del primitivo rifiuto, sdrammatizzandone le scelte relative, si deve tener conto di un periodo di transizione in cui, all'approvazione legale  non  corrisponde, istantanea e unanime, quella socialmente diffusa. Nella zona d'ombra che si viene a creare, restano operanti, benché destituiti di fondamento, tutti i pregiudizi che c'erano prima, con tutte le loro potenzialità di conflittualità e disgregazione. Ma poiché sono taciuti, negati, o addirittura rifluiti nell'inconscio, sono meno visibili e chi vi si espone oggi, a differenza di ieri, non sempre li mette in conto.
Nel 1973 l'associazione degli psichiatri americani sancì la rimozione dell'omosessualità dalle categorie diagnostiche del DSM III. Vi restò, per qualche tempo, l'omosessualità egodistonica. In questa categoria andavano compresi  i conflitti con il proprio io ingenerati  dall'orientamento sessuale.
Il punto debole stava nella formulazione, che imputava all'omosessualità, ribadendone la patologizzazione, una distonia spesso radicata, invece, dalla percezione di un giudizio sociale svalutativo. Per questa ragione anche questa categoria fu cancellata, nel 1987 dalla revisione del manuale.
Non c'è dubbio che in un tal tipo di sindrome, l'omosessualità non sia che un accidente, l'enfer c'est les autres, ma la perdita della specificità della condizione omosessuale può essersi tradotta nello smarrimento delle coordinate concettuali in base alle quali articolare la richiesta o l'offerta d'aiuto.
Sulla revisione del manuale diagnostico, le associazioni gay americane fecero sentire con successo la loro voce, ma evidentemente con maggiori preoccupazioni per l'affermazione di un principio ideale, che per l'eventuale e più prosaico disagio psichico dei propri aderenti.
Quando un movimento di liberazione di una qualsiasi minoranza, accetta - abbandonata ogni ispirazione antagonista - le regole del gioco, e si fa lobby, è fisiologico che le sue rivendicazioni assumano la logica del sistema di riferimento, cessando di essere generali, e orientandosi a privilegio delle proprie élites.
Ma sarebbe ingeneroso addossar loro tutte le responsabilità, in questo caso ben più vaste, che coinvolgono infatti il relativismo immanente alla concezione mercantile della sanità americana, la subalternità culturale dell'Oms e, soprattutto, l'abdicazione della politica, ben contenta di barattare con gratuiti diritti civili lo svuotamento degli istituti democratici, la liquidazione dei diritti del lavoro, lo smantellamento del welfare e tutti gli altri cedimenti alla logica del capitale.
Qua va cercata la responsabilità sociale, non certo nella compagnia degli amichetti, i cui eventuali pregiudizi, nessuna legge può trasformare in atteggiamenti positivi.

La tragedia è avvenuta a scuole chiuse e per una volta, stampa e televisione non hanno intonato il consueto ritornello sulla responsabilità della scuola che, a sentir loro, dovrebbe essere impegnata a ciclo continuo in campagne di propaganda sui più svariati argomenti sottesi dalla cronaca.
E' sconsolante constatare che uomini adulti e ben pagati credano ancora all'efficacia delle prediche, quando intere generazioni di ragazzi, loro compresi, hanno continuato a dedicarsi alla masturbazione, incuranti delle lacrime di san Luigi Gonzaga e dell'affermato rischio di indebolimento della vista.
Credo che non occorra scomodare teoria e pratica della pedagogia per affermare che non sono i precetti catechistici inculcati nelle aule scolastiche a determinare i comportamenti etici, quanto la trasmissione della capacità di orientamento morale. La scuola non deve fornire modelli, ma strumenti.
Da questo punto di vista, gli organi di informazione, con un po' d'acume e un briciolo di competenza, la responsabilità della scuola l'avrebbero ben trovata.
Fino a qualche tempo fa, nella nostra scuola, la struttura privilegiata di ragionamento era il problema.
Nel problema bisogna cercare i dati, scartare quelli falsi, metterli in relazione tra loro con una procedura corretta e coerente, giungere a una conclusione, verificarla.
Tale è la struttura del problema aritmetico o geometrico, ma identica quella del tema d'Italiano e della versione dal Greco.
Con l'aggettivo problematico, si designa una questione complessa, ricca di pro e contro, senza soluzioni precostituite. Bisogna cercare e non sapere, e ci vuole il suo tempo.
Da qualche anno, invece, si vanno affermando i quiz, sulla scorta delle prove Invalsi, che hanno prodotto una sterminata produzione editoriale.
Ci sono maestre e professori che, per ben figurare, si allenano tutto l'anno sulle prove Invalsi e non fanno nient'altro.
Nei quiz, alla domanda seguono le possibili risposte, e da queste, quindi che parte il ragionamento, che deve essere rapido, scandito da inesorabile cronometro.
Risolvere un problema a partire dalla sua risposta significa, ovviamente, lasciare il terreno del metodo scientifico, per avventurarsi su quello più scivoloso delle probabilità.
Nel linguaggio quotidiano, se diciamo che la tal persona è un problema, intendiamo dire che ci dà dei grattacapi, ma se affermiamo che è un vero quiz, lasciamo capire che è impenetrabile, misteriosa, contraddittoria.
Aleatorio e probabilistico, senza tempo sufficiente per una minima riflessione, il quiz viene affrontato dagli studenti con fantasiosi algoritmi (dopo due risposte A c'è una C e poi una B...) o affidandosi alla fortuna. Buttati! consigliano unanimemente genitori, insegnanti e compagni.
E qualcuno si butta, incalzato dalla fretta che ha ormai parodiato la velocità, anche quando quello che sembra un quiz impenetrabile è invece il problematico dipanarsi dell'unicità della propria esistenza.