venerdì 25 maggio 2012

l'inflazione delle dislessie

Al momento della pubblicazione delle raccomandazioni della Consensus Conference sui disturbi specifici dell'apprendimento (2009), il numero dei casi accertati in Italia riguardava l'1% della popolazione in età scolare. L'associazione promotrice della conferenza (AID) stimava che i casi reali andavano calcolati attorno al 3-5%.
Nelle aree anglofone e francofone l'incidenza delle DSA si attesta sul valore massimo (5-6%), mentre la percentuale cala per gli ispanofoni, in virtù della maggior trasparenza fonologica dello spagnolo rispetto a francese e inglese.
Anche l'italiano è una lingua trasparente e ciò avrebbe dovuto far sperare in una minor occorrenza statistica rispetto alla media dei paesi con lingue opache.
Invece non è così, il 16 dicembre 2011, nel corso della conferenza, nell'aula di Montecitorio, su  La scuola dell'obbligo e i disturbi specifici dell'apprendimento, si è appreso che la dislessia viene individuata nel 18-20% dei bambini che frequentano la scuola italiana.
Davvero un po' troppi, e giustamente, Federico Bianchi di Castelbianco, direttore dell'Istituto di ortofonologia di Roma, ha osservato che si tratta di un’ondata di medicalizzazione che investe tutti quei bambini i cui comportamenti si mostrano non inquadrati in un modello prestabilito.
Si tratterebbe ancora, dunque, del vecchio letto di Procuste della scuola italiana che, cacciato dalla porta con l'aiuto di don Milani, rientra dalla finestra, magari sponsorizzato dall'industria farmaceutica.
Se ogni insuccesso scolastico diventa una malattia, ecco che gli insegnanti sono automaticamente dispensati dall'ansia sull'efficacia della loro azione didattica, così come, d'altra parte, la famiglie vengono assolte da eventuali sensi di colpa  relativi alla validità della loro funzione educativa.
Volano, dunque, gli stracci, e ci si arrangi tra poveri.
Ma le cose non stanno propriamente così, c'è da tener conto del business della sanità privata.
Infatti un'opportuna nota ministeriale (Prot.n.26/A 4° del 5/1/2005) recita: si ritiene di dover precisare che per l’utilizzazione degli strumenti compensativi e dispensativi possa essere sufficiente la diagnosi specialistica di disturbo specifico di apprendimento. Con ciò intendendo che non sia più necessario il passaggio attraverso il SSN.
Così, per lo meno, la raccontano, sul loro profilo Facebook, gli Esperti Dsa, che minacciano le scuole riottose ad accettare la certificazione di un privato, di denuncia, querela e richiesta di risarcimento (fissato, a quanto pare con tariffa fissa, in 10.000 euro).
Ecco allora che si intravede una lobby che, più ragionevolmente di mamme e maestre, potrebbe far sentire il suo peso nell'ampliamento progressivo dello spettro di applicabilità della diagnosi di DSA, che si registra a ogni convegno specialistico.
Il rischio, naturalmente, non è quello di dispensare, per certificazione, i fannulloni dai propri doveri, ma quello di sopprimere un sintomo - l'insuccesso scolastico - mascherando la latenza di più gravi disturbi.
Vi è anche da notare come l'estensione delle diagnosi di dislessia sia in linea con i programmi governativi di austerity. Il dislessico, infatti, non ha diritto all'insegnante di sostegno, con conseguente risparmio per l'amministrazione. C'è da prevedere una linea di tendenza che vedrà aumentare le certificazioni di DSA e diminuire, tendendo a zero, tutte le altre.
Infine non bisogna dimenticare che la compagine tecnica alla guida del paese, non fa mistero delle sue preferenze per un sistema educativo sempre più simile a quello americano, dove ci si rivolge al privato a cominciare dall'asilo.
Ai rigorosi calvinisti della Bocconi non va proprio giù che gli Italiani, potendo contare su un sistema scolastico pubblico decente, utilizzino gli eventuali loro risparmi per comprarsi la casa e non per pagare la scuola dei figli. Per aiutare il mercato a orientarsi sugli standard dei paesi più civili bisogna quindi rendere progressivamente la scuola (e la sanità, e la previdenza) indecente.
Una scuola dove diventa opzionale imparare a leggere e scrivere è quanto di più simile alle scuole degli slums e dei ghetti, da cui la la middle class deve rifuggire. 






sabato 12 maggio 2012

l'autonomia dei fichi secchi

pietro morando, il mendicante






nel 2005 (e nulla, da allora, è cambiato nel sistema educativo italiano), eurydice produceva una sintesi comparativa sull'autonomia scolastica in europa.
per valutare il grado di autonomia di sistemi scolastici molto diversi tra loro, furono fissati sei parametri:
- l’offerta educativa
- i contenuti e processi di insegnamento
- i regolamenti e l’organizzazione scolastica
- le risorse finanziarie e materiali
- le risorse umane
- i finanziamenti privati.  
Se si osservano le relative tabelle ci accorgiamo subito di un dato: tutto ciò che è stato (totalmente, o parzialmente) concesso, in relazione ai primi cinque parametri, lo si poteva fare anche prima dell'autonomia.

in particolare, per quanto riguarda le risorse finanziarie, si deve notare che il budget è, in realtà, un trasferimento dal centro, sulla base di parametri fissi, e che le autorizzazioni alla spesa perdono molto del loro fascino, poiché nullificate dalla mancanza di fondi.
il capitolo più innovativo è quello relativo ai finanziamenti privati, ma anche qui, laddove non è lettera morta, quel poco che realmente si può fare lo si faceva già prima attraverso marchingegni giuridici (associazioni dei genitori, cooperative miste).
inutile osservare che quest'ultimo capitolo è del tutto teorico (commovente, coi tempi che corrono, l'autorizzazione a contrarre prestiti) e può essere una voce rilevante solo per qualche istituto tecnico in grado di produrre perizie o certificazioni.
comunque, nella presunzione di poter ricevere qualche soldo dai privati (il cui peso, sul bilancio della scuola italiana, sarà comunque difficilmente accertabile, necessitando lo spulcio di tutti i bilanci delle singole scuole), si è cominciato spendendo un bel po' di soldi pubblici.
lo stipendio medio di meno di 30.000 euro del vecchio direttore didattico (+20% rispetto allo stipendio di un insegnante), diventa, infatti, per il dirigente scolastico, uno stipendio tabellare di € 43.310 a cui si deve aggiungere la retribuzione di posizione (fino a 34.195 €/anno), quella di risultato (20% della precedente) e altre indennità, assegno ad personam, RIA, incarichi aggiuntivi (al minimo, +120% rispetto alla retribuzione degli insegnanti).
naturalmente, anche il compenso del vecchio segretario, divenuto dirigente amministrativo, aumenta.
ma non è tutto, essendo la nuova figura assorbita da impegni amministrativi, la parte didattica è delegata ad altri, le cosiddette funzioni strumentali, che si spartiscono, per l'incarico, l'apposita voce di bilancio (circa 8-9.000 euro lordi, per una scuola di 800 alunni). a completare il quadro, aggiungiamoci l'umiliante catalogo dei progetti idioti adottati per la manciata di euro che portano con sé.
questi, con una certa approssimazione, per l'opacità dei dati, sono i conti della serva. sull'altro piatto della bilancia, ci mettiamo la scuola, che non è migliorata. anzi, da quando è autonoma perde costantemente posizioni nei confronti internazionali.
per propiziare questa sciagurata riforma, cui la sinistra non fu estranea, si scomodò, a suo tempo, il nume tutelare del momento, il mercato, nella presunzione che fosse salvifico anche se solo scimmiottato, un nume che negli ultimi tempi ha perso un bel po' di smalto.
era, ovviamente, un omaggio rituale, e nessuno ci credeva veramente, a determinare realmente il varo dell'inutile riforma fu la convergenza di due interessi apparentemente divergenti.
da un lato, la volontà del sindacato confederale, che nel pubblico impiego aveva attuato la cogestione, di premiare i suoi quadri intermedi (quasi tutti i direttori didattici provenivano dalla milizia sindacale).
dall'altro, la convenienza, per la parte politica, di inverare nello status il cambiamento di ruolo che aveva disegnato per i direttori, trasformati dal primus inter pares dei decreti delegati (1973), nel datore di lavoro dei contratti post 1992.
Il sindacato – quel sindacato i cui dirigenti nazionali concludevano la carriera come alti dirigenti dell'amministrazione che avevano contrastato – assecondò, quanto meno sotto l'aspetto simbolico, un disegno di restaurazione autoritaria nella scuola.
servì alla scuola questo ritorno alle origini? pensavamo davvero che per fare la scuola del xxi secolo ci volessero il maestro unico, il grembiulino e le aste? faranno così in quell'europa rompiballe che continua a chiederci qualcosa?
non sarebbe ora di chiedersi se questa riforma, così com'è stata fatta, si possa anche disfare? si ha in italia l'idea che le riforme sbagliate si possono anche accantonare? o dobbiamo trascinarci dietro per sempre odiosi fardelli da imputare – come un peccato originale irredimibile – agli sconfitti titani (mussolini, craxi, berlusconi) di una mitica età dell'oro ormai lontana?
facciamo un referendum?