Troppo
spesso, con impropria logica da pay tv, si
riflettono sulla scuola tristi echi di cronaca, in seguito ai quali
si reclamano estemporanee programmazioni di educazione civica, o
stradale, o sanitaria, o alimentare.
Soprattutto
in campo etico-morale, le famiglie sembrano ormai esentate dal dovere
di formazione dei figli che passa – con unità didattiche ad
hoc – alla scuola.
Ma non è così che
funziona: precetti, comandamenti, proibizioni – da che mondo è
mondo – soprattutto se trasmessi da un'istituzione per molti versi
invisa, si trasformano inevitabilmente nel catalogo delle cose di
cui, prima o poi, è assolutamente indispensabile fare esperienza.
Per stemperare la
propensione naturale all'egoismo, alla prepotenza, al soddisfacimento
immediato dei bisogni, occorrerebbe tutt'un'altra scuola, dove, ad
esempio, la collaborazione fosse incentivata più della competizione.
Una scuola che forse c'è stata, ma che non c'è più.
Quando, però, come
recentemente, un adolescente si suicida, la scuola va giustamente
interrogata. E non solo perché proprio fra i banchi possono essere
maturate le circostanze che hanno indotto l'estremo gesto, ma
soprattutto perché sgomenta il fatto che in un luogo tanto centrale
della sua esistenza, un ragazzo non abbia trovato nessuno con cui
condividere la propria disperazione.
Sarebbe però sbagliato
individuare il rimedio in un maggior dialogo tra insegnanti e alunni.
A parte il fatto che tale modello pretesco mal si concilia con
l'organizzazione attuale, basata sulla lezione frontale, è in ogni
caso evidente che per tale via ben difficilmente si riuscirebbe a
scalfire la scorza che protegge l'affettività dolente di chi è
seriamente in situazione problematica.
Ma,
a saperlo usare, c'è un'altro modello di comunicazione,
assolutamente di routine
e che coinvolge tutti. È
ben noto che episodi, talmente conturbanti da essere seppelliti come
colpe segrete, emergono talvolta anche nel disegno, apparentemente
banale, eseguito a commento di una favola.
Qualche giorno fa, un
insegnante francese, ha chiesto ai suoi alunni di terza media di
immaginarsi candidati al suicidio e di scrivere la loro lettera
d'addio.
Se un simile componimento
fosse stato assegnato, a tempo debito, al liceo Tasso, un'eccessiva
identificazione o, al contrario, un troppo vigile distanziamento,
avrebbero potuto suonare come campanelli d'allarme.
Per intanto, il
professore d'oltralpe è sospeso dal servizio; a quanto pare, di
certe cose non bisogna parlare.
Questa, la ragione, un
tabù: in Europa e nel XXI secolo.
C'è
naturalmente chi cerca di mimetizzarlo in un'apparente critica
didattica: l'insegnante non avrebbe affrontato preventivamente
l'argomento con i suoi alunni. Bravo merlo! Se
il testo, da narrativo, diventa argomentativo, il conformismo prevale
e all'insegnante viene restituito, più o meno bene, ciò che egli
stesso ha detto.
Non mistifichiamo,
dunque, si propone la politica dello struzzo.
E
viene in mente l'episodio della Zanzara,
il giornalino scolastico per cui si chiamarono i gendarmi. Aveva
parlato di sesso, argomento out,
anche se le ragazzine restavano incinte a quindici anni.
L'AIDS si è diffuso
soprattutto col silenzio, ma la paura che siano le parole, ad essere
contagiose, resta patrimonio delle società arretrate e dei ceti
sociali più retrivi.
Ciò
non sorprende, disgusta invece che le autorità preposte, in nome di
una customer satisfaction che
andrebbe lasciata ai supermercati, siano sempre pronte a mettere in
forse una cosa seria come la libertà di insegnamento, sull'onda di
spinte umorali, tanto plebiscitarie, quanto culturalmente
inconsistenti.
A queste pavide
burocrazie ministeriali vanno addebitate molte responsabilità del
rapido attecchimento di quel germe populista, altrove esecrato.
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