sabato 15 dicembre 2012

struzzi e zanzare


Troppo spesso, con impropria logica da pay tv, si riflettono sulla scuola tristi echi di cronaca, in seguito ai quali si reclamano estemporanee programmazioni di educazione civica, o stradale, o sanitaria, o alimentare.
Soprattutto in campo etico-morale, le famiglie sembrano ormai esentate dal dovere di formazione dei figli che passa – con unità didattiche ad hoc – alla scuola.
Ma non è così che funziona: precetti, comandamenti, proibizioni – da che mondo è mondo – soprattutto se trasmessi da un'istituzione per molti versi invisa, si trasformano inevitabilmente nel catalogo delle cose di cui, prima o poi, è assolutamente indispensabile fare esperienza.
Per stemperare la propensione naturale all'egoismo, alla prepotenza, al soddisfacimento immediato dei bisogni, occorrerebbe tutt'un'altra scuola, dove, ad esempio, la collaborazione fosse incentivata più della competizione. Una scuola che forse c'è stata, ma che non c'è più.
Quando, però, come recentemente, un adolescente si suicida, la scuola va giustamente interrogata. E non solo perché proprio fra i banchi possono essere maturate le circostanze che hanno indotto l'estremo gesto, ma soprattutto perché sgomenta il fatto che in un luogo tanto centrale della sua esistenza, un ragazzo non abbia trovato nessuno con cui condividere la propria disperazione.
Sarebbe però sbagliato individuare il rimedio in un maggior dialogo tra insegnanti e alunni. A parte il fatto che tale modello pretesco mal si concilia con l'organizzazione attuale, basata sulla lezione frontale, è in ogni caso evidente che per tale via ben difficilmente si riuscirebbe a scalfire la scorza che protegge l'affettività dolente di chi è seriamente in situazione problematica.
Ma, a saperlo usare, c'è un'altro modello di comunicazione, assolutamente di routine e che coinvolge tutti. È ben noto che episodi, talmente conturbanti da essere seppelliti come colpe segrete, emergono talvolta anche nel disegno, apparentemente banale, eseguito a commento di una favola.
Qualche giorno fa, un insegnante francese, ha chiesto ai suoi alunni di terza media di immaginarsi candidati al suicidio e di scrivere la loro lettera d'addio.
Se un simile componimento fosse stato assegnato, a tempo debito, al liceo Tasso, un'eccessiva identificazione o, al contrario, un troppo vigile distanziamento, avrebbero potuto suonare come campanelli d'allarme.
Per intanto, il professore d'oltralpe è sospeso dal servizio; a quanto pare, di certe cose non bisogna parlare.
Questa, la ragione, un tabù: in Europa e nel XXI secolo.
C'è naturalmente chi cerca di mimetizzarlo in un'apparente critica didattica: l'insegnante non avrebbe affrontato preventivamente l'argomento con i suoi alunni. Bravo merlo! Se il testo, da narrativo, diventa argomentativo, il conformismo prevale e all'insegnante viene restituito, più o meno bene, ciò che egli stesso ha detto.
Non mistifichiamo, dunque, si propone la politica dello struzzo.
E viene in mente l'episodio della Zanzara, il giornalino scolastico per cui si chiamarono i gendarmi. Aveva parlato di sesso, argomento out, anche se le ragazzine restavano incinte a quindici anni.
L'AIDS si è diffuso soprattutto col silenzio, ma la paura che siano le parole, ad essere contagiose, resta patrimonio delle società arretrate e dei ceti sociali più retrivi.
Ciò non sorprende, disgusta invece che le autorità preposte, in nome di una customer satisfaction che andrebbe lasciata ai supermercati, siano sempre pronte a mettere in forse una cosa seria come la libertà di insegnamento, sull'onda di spinte umorali, tanto plebiscitarie, quanto culturalmente inconsistenti.
A queste pavide burocrazie ministeriali vanno addebitate molte responsabilità del rapido attecchimento di quel germe populista, altrove esecrato.

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