sabato 7 luglio 2012

la scuola serve a bocciare?

Sul sito della Revue des Livres appare la trascrizione di una conversazione con il professor Bertrand Ogilvie dell'università Paris-Nanterre, avvenuta nel corso di un ciclo di discussioni dedicato a « L’école, une institution ambigüe ».
Molte delle sue affermazioni non mi convincono, innanzitutto l'idea che il problema di fondo da cui prende l'avvio la sua analisi sia peculiare della società francese e sostanzialmente estraneo al resto della società europea.
Se si parte dall'ipotesi che le bocciature non siano fallimenti della scuola, ma la sua occulta funzione reale, sembra strano che questo possa essere un problema solo francese. In realtà, sia pure con sfasamenti temporali, ovunque si avvertono segnali di riabilitazione di questo strumento di selezione.
In Italia, dove, dopo le lotte e l'elaborazione teorica degli anni '70 la bocciatura era stata sostituita da una non reale promozione (almeno nel senso che dava al termine don Milani), il battage mediatico sulla meritocrazia tende a reintrodurla a furor di popolo, come richiesta sociale. Non crediamo che il problema sia estraneo alle altre scuole europee.
La questione è dunque generale, soprattutto nell'area continentale europea che ha modellato il proprio sistema scolastico sul modello importato dalle invasioni napoleoniche.
Stanti così le cose, cade l'ipotesi che alla base della questione ci sia la legge sulla laicità del 1905. Il confronto con la situazione danese è poco rilevante sul piano scientifico e riguarda, in ogni caso, la piccola parte del continente toccata dall'etica protestante, stretta tra il sud cattolico e l'est ortodosso.
La causa, con mancanza di fantasia marxista, sarebbe dunque meglio individuarla nella necessità del capitale di disegnare una società funzionale ai suoi bisogni. E aggiungerei, più a bisogni  di consumo che di produzione.
Se così fosse, niente di più probabile che all'interno dello scenario globale, affidati i consumi alle borghesie delle potenze emergenti, non ci sia più bisogno di una rilevante classe media consumatrice in Europa e che non occorra più lo strumento per la sua formazione. La scuola, quindi, si trasformerà in formazione, e qui concordo, pur partendo da ipotesi diverse, con le conclusioni di Ogilvie.
Così come concordo assolutamente con la tesi che la scuola abbia svolto e svolga una funzione di costruzione dell'identità.
Ma qui dobbiamo fare i conti con un'espressione che è in sé ambivalente e che ha una dimensione vettoriale che subordina il suo valore al senso di marcia che gli imprimiamo (in-buor; e-duco).
Resta comunque il fatto, sottolineato da Ogilvie, che la costruzione di un'identità subalterna è passata dalla esclusione dalla scuola ad una inclusione marginalizzante.
Vogliamo aggiungere che alle nuove leve di dannati della terra è sottratto, oggi, anche il patrimonio di quella cultura tradizionale di elaborazione popolare che, dal medioevo al XX secolo, era stata parte integrante della loro identità. Oggi, la cultura popolare la fa la televisione, dunque, di nuovo, il padrone.
Parimenti d'accordo nel ritrovamento di Freinet (e magari Bourbaki) come punto di partenza storicizzato per tutte quelle pratiche che smontano il dispositivo dello spazio cartesiano e del costruttivismo elementare.
Occorre aggiungere che l'astro di Freinet tramontò, anche a sinistra, all'alba degli anni '90, in contemporanea con reaganismo e tatcherismo, cioè con l'imporsi di ideologie del capitale.
Ancora Ogilvie solleva un problema storico (la pedagogia progressista si è sviluppata dividendosi, alternativamente, in metodi centrati ora sul gruppo, ora sull'individuo), quando richiama l'attenzione sulla differenza tra la formazione di individualisti gregari e di  individui sociali. È un tema da sviluppare.
Infine è ora che torni in primo piano la critica all'ortografia. La democrazia ha bisogno di gente che sappia leggere, a scrivere si è già in troppi. Ma anche la lettura è un problema, e non solo per le ragioni addotte da Ogilvie, il quale, malgrado le frequentazioni lacaniane non mette sotto accusa l'intero sistema simbolico.
Ma non c'è simbolo che non sia in relazione con il potere.
g. v.



A cosa serve l'insuccesso scolastico?

Conversazione con Bernard Ogilvie




Charlotte Nordmann: cominciamo con una questione molto generale, tu hai affermato altrove che, a proposito di scuola, bisognerebbe cominciare a vedere ciò che dovrebbe saltare agli occhi se riuscissimo a staccarci dal senso comune di evidenza e naturalità con cui la pensiamo, e cioè che la scuola ha la funzione di produrre fallimenti scolastici e solo un numero limitato di successi. Puoi spiegarci con più precisione cosa intendevi dire?
Bernard Ogilvie: Intanto, volevo dire che è difficile parlare di questo tema adesso, dopo questi ultimi anni e in prospettiva di quelli che ci aspettano …
Mi sono sempre interessato alla scuola perché vi ho passato la mia vita, giacché ho avuto un'esistenza un po' bizzarra, essendoci nato, essendoci entrato e non essendoci più uscito. Ne deriva una cosa un po' folle, l'appartenere a un segmento sociale che conduce un'attività dal senso poco chiaro, la cui logica si separa nettamente dalla logica sociale delle società industializzate: non si produce niente, si serve a poco.
È dunque un'istituzione in cui si trascorre la propria vita con l'impressione di svolgere un ruolo antropologico, di compiere una funzione necessaria che deriva dal fatto che gli esseri umani hanno la strana caratteristica di non sapere far nulla che non venga loro insegnato … In realtà, un'evidenza del tutto falsa, si può dimostrare che le scuole non servono affatto a questo, e che questa scuola soprattutto, obbedisce ancora a una logica molto diversa, non antropologica, ma politica.
E ho detto ancora perché ciò che da un po' di tempo mi disturba, parlando di questo argomento, è la presa d'atto della deriva netta di quest'ultimo decennio. Se un tempo descrivevo una funzione istituzionale, cioè qualcosa di attuale, su cui si poteva intervenire politicamente, oggi non è più così. Oggi ho l'impressione di parlare di qualcosa di antico, che non esiste più, che esiste in apparenza, ma che ha perduto ogni centralità, avviandosi alla dissoluzione più completa. È seccante, perché vuol dire che tutte le categorie che si possono mettere in campo per descrivere questa istituzione non si ricollegano più, in maniera diretta, alla prospettiva di quel che è definito un discorso critico. Oggi bisogna fare il tentativo di articolarle a qualcosa che è nel campo della creazione o della prospezione …
Torno alla domanda, si, è di evidente buon senso smetterla di menarla con il problema lancinante e idiota del fallimento scolastico, che esiste da quando esiste la scuola, e in modo particolare nella scuola francese, un modello molto particolare. Tale fallimento sembra una lacuna, una mancanza, un fiasco di un'istituzione nata per altro, vale a dire il famoso obiettivo antropologico di trasmettere i saperi ai bambini, alle masse, agli scolarizzati di ogni tipo … Si è dunque scoperto, con toni di rammarico, che sin dai suoi inizi questa grande impresa di trasmissione, di cui possiamo esaminare mezzi, metodi e tutto il resto, boccia, con tassi variabili: c'è una percentuale di individui che non arrivano agli obiettivi, malgrado la simpatia e gli sforzi con cui si cerca di farglieli perseguire.
Ora, è evidente che, contrariamente all'idea della bocciatura come scacco della scuola, l'istituzione è stata concepita in partenza proprio perché tale selezione, di rilevante peso statistico, abbia luogo, accompagnata naturalmente da un limitato numero di successi, per far si che non solo la scuola riproduca identicamente la società, ma anche che gli individui che vi transitino interiorizzino come naturali norme e gerarchie che ritroveranno a suo tempo sul mercato del lavoro.
Voglio sottolineare che non intendo riproporre la teoria classica del conculcamento ideologico, alla base della sociologia degli anni '60: non perché fosse sbagliata – è verissimo, per esempio, che la scuola di Jules Ferry veicolasse, in un vero e proprio catechismo laico, una precisa visione del mondo – ma perché ciò a cui miro è qualcosa di più profondo.
Quando parlo di scuola, parlo della scuola francese, così come è stata concepita dai costituenti nel 1789, al prezzo di interminabili discussioni e strascichi polemici, un progetto evidentemente non unanime. Decolla, in quel momento, l'idea veramente originale di un istituzione che metta i bambini delle generazioni successive alla rivoluzione (che fu un'originale opera di creazione, la fondazione di un diritto in soluzione di continuità con ogni tradizione) di non accettarla come lascito della tradizione – come fatalmente sarebbe avvenuto, ereditandola – ma di viverla come qualcosa da reinventare. A tal scopo bisognava fornir loro, in tutti gli ambiti possibili, gli strumenti per essere al livello di chi pensa, di chi formula principi e propone soluzioni, e non di chi li subisce. Occorreva allora inventare una speciale istituzione che garantisse a tutti (ferma restante, allora come sempre, la questione di cosa si intenda per tutti) la possibilità di penetrare il pensiero politico. È dunque, sin dal suo esordio un progetto politico, e tale è rimasto, fino in fondo. Oggi, nello spirito delle persone che fanno funzionare la scuola, tale passaggio viene associato – con una modalità piuttosto libera, riconducibile all'associazione di idee – all'idea politica di emancipazione.
Ovviamente questa idea è stata contrastata, negli ultimi vent'anni, dalla concezione della scuola come luogo principalmente di formazione – non più educazione o istruzione – orientata al mercato del lavoro. Ciononostante, l'idea di emancipazione resiste.
L'aspetto più sconcertante sta nel fatto che la scuola, cioè il posto dove si mandano i bambini affinchè divengano i soggetti del proprio pensiero e del proprio dire, sia sul piano della comunità politica, sia in quello più immediatamente concreto, è prima di tutto un luogo dove la maggioranza viene umiliata. Blanda, anodina o gravissima, quest'umiliazione c'è dappertutto e la scuola è luogo di discriminazione e, in fin dei conti, di selezione.
In realtà il paradosso è solo apparente: questa scuola politica non poteva più esimersi dall'affrontare il problema di cosa fare di una massa di scolarizzati che, educati all'uguaglianza, approdano in una società profondamente ineguale, nella quale la questione della proprietà è stata risolta nel senso di una tutela dell'inuguaglianza, per cui devono perciò, in una maniera o nell'altra, abbozzare, rassegnandosi all'ingiustizia di una educazione ugualitaria che non può controbilanciare la vita disuguale che dovranno condurre – non essendo stata, come ben si sa, la rivoluzione francese una rivoluzione comunista.
È un problema francese, negli altri paesi d'Europa il destino psicologico, sociale e politico degli individui non si gioca nella scuola. In Francia il contrasto tra una carriera scolastica fallimentare, o d'eccellenza, e un destino sociale o professionale decisamente opposto è vissuto come un'ingiustizia difficile da capire e, talvolta, da sopportare [ma anche in Italia è così, NdT]. Non accade lo stesso negli altri paesi europei (mi riferisco alla Danimarca, che conosco bene).
Quali le ragioni? Non bisogna dimenticare che la Francia è il solo paese europeo, o, per farla breve, il più conseguente, in cui la religione è stata esclusa dagli apparati di riproduzione ideologica destinati all'infanzia. La giustificazione e la legittimazione dei differenti ruoli sociali continua, seppure in forme molto socializzate, ad essere un argomento del discorso religioso. In Danimarca, per esempio, i pastori, molto numerosi, ricoprono un ruolo con un vasto raggio d'azione: sono loro che insegnano ai giovani danesi che, anche se sono stati molto bravi a scuola potrebbero fare gli spazzini, cosa molto buona, perché da una parte fa ricoprire un ruolo sociale essenziale, e dall'altra realizza la volontà di dio. Questa la sostanza del discorso, anche se espresso in maniera meno diretta. In Francia un discorso simile non passerebbe. Ci vuol altro affinché un ragazzo possa mettere interiormente in relazione il proprio percorso scolastico e ciò che lo attende nel futuro.
Il colpo di genio della scuola francese è stato quello di inventare un dispositivo che permette tale relazione, ovvero trasformare in inegualitante un sistema egualitante. Attenti, però, non ci sono due sistemi sovrapposti, è lo stesso sistema che funziona a due velocità. La raffinatezza del sistema consiste nel fatto che i soggetti coinvolti, gli insegnanti come gli alunni, non hanno la percezione di sottomettersi a norme eteroimposte, ma se ne credono gli artefici. La valutazione del lavoro scolastico, dunque, non dipende da una norma esterna, ma sanziona i propri limiti naturali. È qualcosa di molto sottile e complesso. Chi ha decostruito meglio questa logica, senza teorizzazioni compiute, ma mandandola in frantumi nei fatti, è stato Célestin Freinet.
Tutto si basa su una doppia torsione, spaziale e temporale. La scuola, dalla materna all'università, è il luogo di tale torsione. Ogni bambino che va a scuola crede di vedere – per effetto dell'evidenza palesata – uno spazio euclideo, semplice, nel quale c'è una certa distanza, ben pensata, ben organizzata, tra la bocca di chi parla e le orecchie di chi ascolta. Tutto quello che il maestro dice arriva, in modo uniforme e nello stesso tempo alle orecchie di tutti, con gli stessi ritmi e lo stesso programma, valido per tutti. È la famosa rappresentazione della scuola della III Repubblica, in cui in tal giorno, a quell'ora, in tutte le scuole francesi i bambini apprendono lo stesso specifico argomento. In questa sorta di spazio euclideo della classe, dove tutti ricevono la stessa cosa nel medesimo tempo, tutto si configura come uguale.
In realtà tale spazio euclideo è un'illusione totale: qui c'è la torsione spaziale. Come tutti comprendiamo, se dovessimo disegnare lo spazio rele della classe, otterremmo qualcosa di più complesso, in tre dimensioni, con qualcuno quasi in braccio all'insegnante, che gli racconta cose che già conosce per via familiare o sociale, e altri troppo lontani, alla distanza di anni-luce, che non sentono niente. Ma questo non si vede. Si vede l'opposto, l'uguaglianza spaziale, che giustifica l'assunto, che gli alunni sentono come grandemente ingiusto, per cui: ho detto a tutti la stessa cosa, e voi tutti l'avete sentita, allora non si capisce perché uno debba fare in un modo e l'altro in un altro, non si vede perché qualcuno ha capito e altri no.
La torsione ha effetti politici immediati, maschera l'inegualitarismo di un insegnamento che si pretende egualitario. Ma ha anche effetti psicologici su cui si sorvola con troppa leggerezza: fa vivere agli alunni un'esistenza paradossale che, quando non c'è un forte e coerente consenso sociale, svuota la scuola di significato, trasformandola in vero luogo di tortura in cui le attività scolastiche sono vissute come atti di violenza. Non deve allora sbalordire che si vedano, nelle banlieu, giovani che attaccano le scuole. Può sembrare assurdo, ma ha una sua logica: attaccano luoghi di umiliazione, di cui hanno smarrito il senso, e reagiscono distruggendoli.
La seconda torsione è temporale. Il percorso scolastico è, in via di principio, un percorso di trasmissione, definizione che non implica il fatto che sia fatto sotto il controllo di un cronometro. Ora si constata che il sistema scolastico è legato profondamente a una logica, quella della valutazione continua, che ha come caratteristica paradossale l'essere in disaccordo con la temporalità reale del movimento con cui gli individui raggiungono, a piccoli passi, le nuove acquisizioni. Questo itinerario verso il sapere è, come si sa, molto vario e quindi c'è poco da dire a riguardo. Ma se il principio di trasmissione del sapere implica che qualcuno sappia alla fin fine qualcosa, poco importa se ci mette un'ora, tre giorni o tre mesi … Ora, d'improvviso, sembra che alla scuola null'altro abbia importanza, se non il controllo (le verifiche!) e la valutazione (i voti!) di ciò che si sa in tal giorno e alla tal ora. Questa qualificazione temporale, che in realtà non ha senso, né interesse, per quanto riguarda i contenuti e le acquisizioni, sembra essere diventata la questione essenziale. E la valutazione che viene data agli alunni su questa base diventa indiscutibile e costituisce un elemento con cui costruire l'identità di ciascuno, senza più ritornarci sopra. L'atteggiamento a riguardo degli insegnanti è vergognoso, non ci arrivano ad ammettere che si potrebbe giocare con tali dati e falsificare i risultati; è l'evidenza di un accecamento davvero ossessivo. Per tutti si ha a che fare con l'evidenza dei fatti. In questo spazio euclideo e in questa temporalità unidimensionale in cui l'alunno si colloca, ciò che si vede è che il suo vicino di banco ha risposto a tutte le domande, e lui no. Non può che concluderne, dato il sistema di interpretazione in cui è immerso, che c'è una differenza di valore tra lui e il suo vicino, mentre c'è solo una differenza nei tempi, che non ha alcuna importanza e che nulla ha a che vedere con la trasmissione dei saperi.
Nel mondo artigianale, nell'apprendistato, l'apprendimento non è pensato così: l'apprendista deve imparare a fare qualcosa. L'obiettivo è fare il lavoro, non importa il tempo che occorre. In un caso c'è una riflessione su un lavoro, una trasmissione, nell'altro è tutto diverso, la questione è la costruzione di un'identità. Gli alunni, un giorno dopo l'altro, apprendono di avere una determinata natura, e che questa potrebbe anche essere determinata geneticamente (occorrerebbe riflettere sui test d'intelligenza). Tale natura ha due aspetti, profitto e atteggiamenti. Si valutano le competenze dell'alunno e la sua determinazione. Tali aspetti diventano i due assi di costruzione dell'identità, modellata come la produzione di un'evidenza: tale costruzione non può realizzarsi che sulla falsariga di una differenziazione gerarchica. Ogni differenza viene perciò resa omogenea, ridotta su un unico piano che permette di misurarla, gerarchizzarla, sanzionarla. Diventano quindi occasioni di umiliazione, poiché vengono veicolate come indiscutibili, essendo al tempo stesso assurde, e quindi non sopportabili. Ciò mira a fissare, nel piccolo francese, l'idea che non potrà avere rivendicazioni politiche, salariali, professionali, in antitesi con il proprio percorso scolastico.
C'è dunque una scuola totalmente disuguagliante che produce profonde convinzioni che non si capisce quale valore abbiano una volta usciti dalla doppia torsione che le determina. Ciò che io sottolineo lì, non è nell'ordine del conculcamento o della selezione, perciò metto a distanza la sociologia. Quello che affermo è piuttosto un'eco di ciò che Focault dice a proposito delle norme, che esse rilevano dalla produzione, non solo interiorizzazione, ma di più. Qualcosa che plasma profondamente i francesi, come si capisce per contrasto, frequentando studenti di altri paesi.
L'importanza del movimento di Freinet sta nell'esemplarità di ciò che si è potuto fare per capovolgere la logica che ho sommariamente descritto. Ora sia chiaro che quel movimento non è nell'ambito della pedagogia o della didattica – contrariamente a quello che ne avrebbe pensato lo stesso Freinet. Freinet non ha voluto, in definitiva, andare oltre a quella operazione antropologica, che si pretende necessaria, per cui il bambino non sa nulla, bisogna insegnargli tutto e che a tal fine occorre trovare dei buoni metodi – via per la quale si finisce col constatare che anche i buoni metodi producono fallimenti, per i quali ci si sforza di migliorarli, facendo ancor più pedagogia, per poi accorgersi sicuramente che si producono ulteriori fallimenti, perché da scacco nasce scacco, secondo una logica implacabile che si morde la coda. Non è dunque il miglioramento della pedagogia che ha contato, ma un rovesciamento totale del dispositivo.
Questo rovesciamento, d'altra parte, ha avuto un'origine del tutto accidentale. Freinet, reduce della Grande Guerra, ha perso un polmone, non può parlare con voce stentorea, né stare in piedi, deve far scuola semisdraiato, quasi senza parlare. Il dispositivo spaziale salta, bisogna inventarsi qualcos'altro. E allora si inventa di mandare in pezzi il dispositivo spaziale di cui si diceva, dove si suppone che tutti abbiano diritto a ricevere la stessa cosa nello stesso momento. Trasforma la classe in una sorta di laboratorio, luogo totalmente eterogeneo e non euclideo, dove ci sono angoli pieni d'oggetti, un luogo dove la gente lavora a ritmi non omogenei, a dei compiti il cui scopo evidente è di essere portati a termine e non di dimostrare il valore di ciascuno. Il problema della costruzione dell'identità è così totalmente eluso. L'insegnante diventa marginale, una sorta di bibliotecario di complemento, che sta nel suo angolino, si occupa dei propri affari, lavora per suo conto, che risponde alle domande che gli si pongono e dà qualche indicazione alla bisogna, ma che si affretta a rimescolare le carte, dicendo: «se ti interessa questo, chiedilo a tizio, l'aveva capito bene la settimana scorsa». Una scelta forte, che rieccheggia quella di Freud, quando decide di smetterla di interessarsi, nel modo classico, psicologico, superficiale di quel che gli raccontano i pazienti, voltando loro le spalle, iniziando la pratica della psicanalisi, che non ha nulla da spartire con la psicoterapia, essendone precisamente l'opposto.
Charlotte Nordmann: una domanda che vorrei farti riguarda questa questione del tempo. Mi chiedo se questo non sia collegato, nella scuola, all'idea d'uguaglianza, come se, non rispettando lo stesso ritmo per tutti si risciasse di lasciare “i più deboli” al traino, si rischiasse di non dare a tutti altrettanto … mi pare che gli insegnanti, quando difendono questa scelta abbiano in testa questo.
Bernard Ogilvie: il fatto è che gli insegnanti, come tutti, sono subalterni all'idea formale di uguaglianza: pensano che essa consista nel creare uno spazio in cui non ci sia posto per le individualità. Quando le cose si dicono così, si coglie subito il lato perverso e negativo della faccenda. Vuol dire che si costruisce uno spazio in cui l'individuo non puo appropriarsi di alcunché, è circoscritto in uno spazio di donazione, che è in realtà uno spazio di normalizzazione in cui le attività di apprendimento non sono più compiti regolati da norme poste dall'esterno, enunciabili, tacciabili di autoritarismo, ma diventano regole e abiti comportamentali attraverso le quali l'individuo – parlo dell'alunno, ma vale anche per l'insegnante - non fa altro che forgiarsi come individuo egualitario, vale a dire uomo qualunque e mai personalità singola. Con il che si approda al risultato paradossale, per dirla in maniera un po' scioccante, a scuola non si impara proprio niente, ma niente del tutto. È quel che esprime la formula, di un cinismo stupefacente, per quanto del tutto involontario, di un ministro della IV Repubblica, Édouard Herriot, che affermava: la cultura generale è quel che resta quando si è dimenticato tutto il resto. Frase magnifica, perché assolutamente vera: a scuola si acquisisce un atteggiamento, un'identità, non delle conoscenze, e vale anche per gli insegnanti, che finiscono per svolgere un'attività del tutto formale di valutazione.
E voilà, eccoci in pieno oggi: abbiamo raggiunto il mondo del lavoro. Tutto quello che dice Christophe Dejours sui drammatici illeciti della valutazione individuale in relazione allo psichismo dei lavoratori, lo ritroviamo corposamente nella scuola. Ci si impegna nel mettere in luce, con metodi quantitativi, meccanismi che, per funzionare, dovrebbero restare opachi. Non si deve sapere come un bambino impara a leggere e scrivere … Con le migliori intenzioni del mondo, ogni sorta di disciplina, pedagogia, linguistica, psicologia, fino alla neurologia, si pone come compito di scoprire cosa succede nella scatola nera dei processi individuali con cui i singoli si appropriano dei contenuti mentali e comportamentali. Ma più ci si sforza in quest'analisi, meno risultati si hanno: più conoscenze abbiamo del processo d'apprendimento, più cerchiamo di favorirlo, meno l'otteniamo. È davvero qualcosa di misterioso … Come spiegarselo? La faccenda è che, in realtà, questo punto deve rimanere oscuro affinché si compiano concretamente i processi.
La stessa cosa capita nel processo di produzione: tra ciò che è prescritto e ciò che davvero si fa si interpongono – ed è così che si fanno per davvero le cose – procedure irregolari di adattamento, di trasformazione e di deformazione. Il processo produttivo, dunque, può finire per essere penalizzato se viene codificato e parcellizzato, proprio perché è irregolare. Ci si ritroverebbe a sanzionare proprio i migliori, quelli che svolgono il loro lavoro in maniera più singolare, inventando quel surplus di procedimenti che permette loro di realizzare quanto prescritto. Da qui gli esiti psicologicamente catastrofici e paradossali di lavoratori che si suicidano per essere stati sanzionati, pur facendo nella loro maniera migliore, e con successo, ciò che gli si chiedeva di fare, perché si era scoperto che non lo facevano come lo si doveva fare. Qui si vede che, contrariamente a quanto spesso si crede, il capitalismo non è solo, né principalmente, un sistema economico, ma realmente un sistema politico, perché quando deve scegliere tra produttività e disciplina, sceglie sempre la disciplina. Lo racconta bene, in un suo bel libricino, L’Établi, Robert Leinhart: qui troviamo un operaio al centro di una catena di montaggio, su un banco da lavoro che si è costruito per i fatti suoi, un marchingegno folle che non assomiglia a niente di conosciuto, che non è a norma, ma che gli permette di lavorare a una velocità pazzesca, recuperando tutti i pezzi fallati dalle macchine, è efficientissimo … un bel giorno però, arrivano dei tipi in tuta bianca e cronometro che sbottano: «e questo, cos'è? non si è mai vista una simile baracca! fatela sparire e metteteci un bel bancone nuovo ben progettato e conforme alle norme attuali!» E quando l'operaio torna, e trova che il suo bancone è stato rottamato, non riesce a fare più nulla, non può più lavorare. Di colpo la linea rallenta, niente funziona più come prima e l'operaio, anche se non si suicida, praticamente non è più in grado di lavorare. Questo capita oggi – alla decima potenza – e nella scuola è lo stesso.
La valutazione scolastica è un'indebita intrusione. L'ho sempre giudicata così e voglio essere più deciso: trovo vergognoso che, dopo aver insegnato qualcosa a un bambino, gli si vada poi a chiedere cosa ne pensa, cosa ne ricava, cosa si ricorda., è inammissibile!
Charlotte Nordmann: è ciò che vuoi dire quando affermi che la scuola dovrebbe piantarla con l'idea di dover essere efficace.
Bernard Ogilvie: si, è il solo modo per creare uno spazio di comunicazione, di scambio, di confronto e di appropriazione delle conoscenze, dove al centro ci siano l'abilità di lettura e le cose da sapere, e non la questione di chi sei e quanto vali. La scuola non è mai stato altro. Una volta tentava almeno di salvare la faccia, ma adesso non è altro che una grande rete di videosorveglianza. Quel che mi colpisce è che la scuola – ma ciò di cui parlo viene superato dalla storia; ed è sempre meno vero – dalla materna all'università, è il luogo dove, una volta chiusa la porta della propria classe, si fa quel che si vuole. In particolare si possono dare i voti che si vogliono. Ma gli insegnanti non approfittano di questa libertà. Non si è obbligati a far credere permanentemente ai propri alunni che i loro compiti e loro stessi siano la stessa cosa. C'è un gesto fondamentale che consiste nel non identificare un individuo col suo lavoro. Si deve poter dire a un alunno che il suo lavoro non vale nulla, ma che lui vale tanto e che deve dunque rivederlo fino a farlo valer qualcosa: partendo da qui gli alunni sono messi in confronto sul piano tecnico, dove non si tratta più di costruire la loro identità, ma di rimuoverla.
Ecco dove nascono le difficoltà che hanno i ragazzi francesi ad accettare il rischio, così come attestano i rilevamenti PISA. Da dove derivano, se non dal fatto che i ragazzi francesi, diversamente dagli altri, in quel gioco si giocano la pelle, la loro stessa identità. Questo spiega gli strani e poco leggibili risultati della Francia in queste valutazioni: i punteggi degli studenti francesi sono mediocri, rispetto alle medie europee, e non corrispondono agli standard elevati della qualità dell'insegnamento della scuola francese che si dimostra una realtà, anche se funzionante da alibi, nel constatare che i migliori alunni francesi sono migliori di tutti gli altri, così come i peggiori sono i peggiori di tutti. Ci troviamo dunque in presenza di una diversificazione massima che non ha confronti in Europa. Perché ciò che ogni volta si mette in gioco è un maggior rischio e non un problema tecnico.
Un altro esempio, apparentemente aneddotico, ma di grande interesse, riguarda l'ortografia in Francia. La Francia è l'unico paese europeo ha non aver saputo riformare la propria ortografia. Malgrado ciò, l'Académie française registra costantemente le innovazioni, con un metodo flessibile: si autorizza la scrittura delle parole in modi differenti. È un buon metodo, intelligente, sono i linguisti a formulare le varianti. Ma non c'è niente da fare, ci sono degli insegnanti che continuano a sanzionare alunni perfettamente in regola.
I francesi ci tengono come alla pupilla dei loro occhi, è facile da capire, anche se poi solo in Francia è così, mentre altrove importano altre cose, in Inghilterra, per esempio, l'accentazione …Ma l'ortografia non serve a dare senso, è prodotto storico aleatorio, che si giustifica ben poco. Un punto di grande interesse del Grevisse, la grammatica su cui studiavo da ragazzo, per altro opera di un belga, era nel sottolineare con chiarezza che nell'uso comune, in quello degli scrittori e nell'evoluzione della lingua regnava il principio di flessibilità e di adattamento … Che Proust, Montaigne e tutti gli altri grandi scrittori non avevano assolutamente il vezzo dell'ortografia.
Orbene, questo esito aleatorio della storia, che bisogna mandare a memoria, viene valutato. Così si detiene uno straordinario strumento di potere: sottomettere gli alunni a un arbitrio. Si distinguono a partire da qui gli alunni disponibili a sottomettersi a regole non razionali e imposte con la forza, da quelli che non l'accettano. E su questa base si opera una selezione, totalmente illegittima, ma molto efficace: una scrittura disortografica è mostruosa, illeggibile, sporca, una tara morale ...
Jérôme Vidal : c'è da porsi una nuova domanda. Alla fine del secolo XIX c'è stato in Francia chi affrontava la questione, anche in modo molto deciso, penso ad esempio a Ferdinand Brunot, grande storico della lingua, che non si faceva abbindolare dalla pretesa di giustificare l'ortografia partendo dall'etimologia – discorso che si faceva anche in Spagna, dove però i riformatori vinsero la partita, riformando un'ortografia altrettanto barocca, a quel tempo, di quella francese – la domanda da farsi è questa: perché né i sindacati studenteschi, né quelli degli insegnanti, né i partiti politici portano avanti questa rivendicazione?
Bernard Ogilvie: l'ortografia è uno strumento di potere.
Jérôme Vidal : certamente, ma bisogna chiedersi perché nessuno voglia impadronirsene. La conseguenza di ciò è l'inferiorità francese nelle lingue straniere: per imparae a parlare una lingua, bisogna parlarla, e quindi fare degli errori, or bene, i francesi sono terrorizzati dalla paura di commettere errori. Di conseguenza, dopo dieci anni di studio, non sanno spiccicar parola.
Bernard Ogilvie: sono daccordo su tutto, ma entriamo nel dettaglio tecnico. Quello che mi preme sottolineare è il modello costruttivista cartesiano, l'idea che l'apprendimento debba essere elementare, cominciando dagli elementi più semplici, un'idea che si appoggia a semplici metafore d'ispirazione cartesiana. Prima le fondamenta, poi il tetto. È solo una convinzione, ma di grande peso politico. Infatti implica che tutte le tappe di apprendimento siano determinate da un'autorità superiore e centralizzata. Nella realtà non è così che si impara, si impara dall'ambiente, facendo errori, si impara cominciando dalla fine. Mai un bambino imparerà a leggere, accontentandosi di ciò che gli dà la scuola, accontentandosi delle letterine, dell'alfabetizzazione. Si impara perché si sta in un ambiente pieno di libri. Come ha imparato a leggere Freud? Era in una soffitta con sua sorella e strappava le pagine di un magnifico libro … Ecco come s'impara! I bambini imparano attraverso l'esperienza della frequentazione di oggetti che possono avere un uso multiforme. Il bambino sa la differenza tra l'elenco del telefono, un libro di cucina o un giallo … non li sa decifrare, ma in qualche modo li sa leggere, e op! può entrare nei dettagli cominciando dalla fine. Se si comincia dagli elementi semplici, sperando di cogliere il tutto, non lo si raggiunge mai.
C'è anche una falsa percezione, che mette in difficoltà la nostra comprensione: si insegnano gli elementi a tutti i bambini, ma solo qualcuno di loro se ne fa qualcosa … il fatto è che questi avevano già accesso al tutto, e se tale accesso non è precoce, non ci sarà più, interdetto proprio dal metodo con cui si insegna … più che il problema del diritto all'errore, qui entra in gioco lo schema dell'elementarità.
Se volessimo divertirci con la grande periodizzazione storica, si potrebbe opporre lo schema elementare, cartesiano, intimamente legato alla concezione dell'insegnamento della rivoluzione francese, ma anche a quella dei Gesuiti, e lo schema aristotelico, che Marx riprende ne Il Capitale: quello che differenzia l'ape dall'architetto è che questi parte da un'idea, che gli viene da altrove, in funzione di cui si organizza il tutto: è cioè a partire dalla totalità che i singoli elementi assumono un senso. Freinet lo faceva molto bene, senza teorizzarlo, ma praticandolo. Creava un ambiente dove c'erano delle totalità, degli insiemi organici funzionanti, degli organismi interi fra loro in relazione. Da lì il bambino, poco a poco, scopriva gli elementi semplici che li componevano.
Charlotte Nordmann: vorrei tornare sul quesito: cosa sta per cambiare? mi pare che tu non abbia detto con chiarezza che cosa ti sembra di aver contribuito a cambiare.
Bernard Ogilvie: quello che cambia, a livello di collège e di università è che si sta per distruggere questo sistema, che aveva tutte le perversioni che si son dette, ma che funzionava molto bene – malissimo, cioè benissimo. Si sta per distruggere questa scuola di massa che era la scuola francese, una scuola di massa che riproduceva massivamente, in uguaglianza, la disuguaglianza, cosa che non avviene nel resto d'Europa, dove questa riproduzione avviene su scala differenziale e locale, diseguale e regionale. In Francia c'è un'omogeneità nazionale. Tutto ciò sparirà del tutto. All'università è impressionante come si intenda svuotarla creando, ad esempio, filiere spazzatura da contrapporre a filiere in tensione. È gravissimo, una volta che si sarà distrutto questo originale dispositivo di produzione di identità francese, chi vi provvederà? Non abbiamo abbastanza pastori, non siamo in Danimarca. In Francia non c'è ricambio.
Il risultato è quello che rivela l'inchiesta sociologica condotta quando Rocard era primo ministro e c'erano grandi manifestazioni, nel corso di una delle quali era stata saccheggiata Montmartre. Rocard aveva avuto l'idea di mandare una squadra di sociologi nelle prigioni, per capire chi fossero i saccheggiatori. I sociologi dovettero concludere che c'era un panorama molto eterogeneo di individui, con un'unica caratteristica in comune, tutti avevano subito una bocciatura. Questo risultato no è stato sfruttato, ma all'epoca, mi aveva colpito.
Comunque, una volta che la scuola sarà distrutta, dirottata sulla formazione, articolata al mercato del lavoro, cosa veramente assurda, chi si occuperà della riproduzione, lo faranno da soli? Potrebbe essere divertente. Si, si va verso il caos.
Charlotte Nordmann: non sono troppo sicura che un sistema di formazione non possa svolgere le stesse funzioni: ognuno, secondo le sue “competenze” annotate sul libretto di formazione si penserà meritevole del posto sociale assegnato … Ma per seguire il senso del tuo discorso si potrebbe sottolineare la crescita, la moltiplicazione e l'intensificazione dei dispositivi di “prevenzione”, schedatura e repressione nelle scuole, che diventano, da una decina d'anni, sempre più strategici, c'è chi suggerisce una certa qual inquietudine del potere costituito …
Bernard Ogilvie: be' quando si cercano i criminali all'asilo, è un brutto segno!

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