venerdì 21 dicembre 2012

homeschools


La borghesia fa da sé
Leggo questa lettera su un blog di homeschooler nazionali, il movimento di chi sceglie l'educazione parentale, in alternativa alla scuola pubblica.
È un movimento che riflette palesamente la tendenza della borghesia a ritenersi centro del mondo e misura di tutte le cose.
La cosa è nata in America, sulla spinta delle sette più fondamentaliste che temono, a ragione, che nella scuola pubblica si leggano altri libri, oltre alla Bibbia.
Malgrado i poco nobili natali, il movimento dell'homeschooling incassa, qui da noi, qualche gradimento a sinistra, nell'ottusa convinzione che ogni scontento sia un oppositore e ogni cosmopolitismo un passo avanti verso l'internazionalismo.
Leggiamo le ragioni che hanno indotto Asya a scegliere questa soluzione, ne valutiamo la serietà e fin d'ora ci complimentiamo con il senso di responsabilità dei suoi genitori.
Ho tredici anni, mio papà è italiano ma sono madre-lingua inglese. A scuola, a volte, non capivo quando spiegava la maestra anche se cercavo di stare attenta.
Il papà deve essere molto impegnato, se in tredici anni non è riuscito a insegnare la sua lingua alla bambina. Ora, evidentemente desideroso di farle riguadagnare il tempo perduto, la tiene a casa da scuola, e, immaginiamo, chiederà il part time per insegnarle l'italiano, perché si suppone che la madre non lo sappia fare (o finora non lo ha fatto per scelta?). Un'alternativa è che la famiglia ritenga se non commendevole, lecito, che si possa risiedere e crescere in Italia, ignorandone la lingua.
Questa bambina madrelingua inglese, che ha come hobby l'equitazione, ci fa venire in mente i tanti bambini madre e padrelingua araba, wolof, indi, cinese e kormanci che affollano le nostre aule scolastiche. Debbo onestamente dire che, se ci fosse l'obbligo di scegliere, sarei contento di tenermi questi e di rinunciare alla piccola amazzone.
Mi distraevo spesso quando i compagni sussurravano o mi facevano passare bigliettini e poi mi disperavo perché avevo perso il filo del discorso della maestra e magari si arrabbiava pure con me.
Di bimbi come questa, ce n'è a valanghe: non sono mai loro a far qualcosa, è sempre un altro che ha cominciato.
Nella mia classe, li gratifico di un castigo triplo, perché la responsabilità di ogni atto è personale, perché ignorano l'utile precetto evangelico del fuscello e della trave, ma soprattutto perché non sono originali e sanno solo imitare.
Inoltre mi annoiavo perché non avevo fatto molta amicizia con i compagni di scuola: io, infatti, ero (e sono ancora) un po’ timida! Preferisco stare con i miei cari amici più che stare con i ragazzi della classe. [in neretto nel testo].
Disdicevole, lo ammettiamo, che nella scuola pubblica uno non si possa portare gli amici da casa, ma siamo sicuri che tenere la piccola Asya ben ovattata nel suo rassicurante piccolo mondo familiare sia la strada migliore per farle superare i suoi problemi?
Mi spiace sinceramente, per questa bambina, costretta dalla scelta dei genitori a crescere sotto una campana di vetro, ma il compiacimento con cui gli homeschoolers ne pubblicano la lettera è fonte, per me, di viva soddisfazione.
Da un ventennio la borghesia nostrana si dà da fare per ridisegnare la scuola e modellarla al proprio uso e consumo.
Ma se ci sono iniziative come queste, vuol dire che ancora non c'è riuscita del tutto.

sabato 15 dicembre 2012

struzzi e zanzare


Troppo spesso, con impropria logica da pay tv, si riflettono sulla scuola tristi echi di cronaca, in seguito ai quali si reclamano estemporanee programmazioni di educazione civica, o stradale, o sanitaria, o alimentare.
Soprattutto in campo etico-morale, le famiglie sembrano ormai esentate dal dovere di formazione dei figli che passa – con unità didattiche ad hoc – alla scuola.
Ma non è così che funziona: precetti, comandamenti, proibizioni – da che mondo è mondo – soprattutto se trasmessi da un'istituzione per molti versi invisa, si trasformano inevitabilmente nel catalogo delle cose di cui, prima o poi, è assolutamente indispensabile fare esperienza.
Per stemperare la propensione naturale all'egoismo, alla prepotenza, al soddisfacimento immediato dei bisogni, occorrerebbe tutt'un'altra scuola, dove, ad esempio, la collaborazione fosse incentivata più della competizione. Una scuola che forse c'è stata, ma che non c'è più.
Quando, però, come recentemente, un adolescente si suicida, la scuola va giustamente interrogata. E non solo perché proprio fra i banchi possono essere maturate le circostanze che hanno indotto l'estremo gesto, ma soprattutto perché sgomenta il fatto che in un luogo tanto centrale della sua esistenza, un ragazzo non abbia trovato nessuno con cui condividere la propria disperazione.
Sarebbe però sbagliato individuare il rimedio in un maggior dialogo tra insegnanti e alunni. A parte il fatto che tale modello pretesco mal si concilia con l'organizzazione attuale, basata sulla lezione frontale, è in ogni caso evidente che per tale via ben difficilmente si riuscirebbe a scalfire la scorza che protegge l'affettività dolente di chi è seriamente in situazione problematica.
Ma, a saperlo usare, c'è un'altro modello di comunicazione, assolutamente di routine e che coinvolge tutti. È ben noto che episodi, talmente conturbanti da essere seppelliti come colpe segrete, emergono talvolta anche nel disegno, apparentemente banale, eseguito a commento di una favola.
Qualche giorno fa, un insegnante francese, ha chiesto ai suoi alunni di terza media di immaginarsi candidati al suicidio e di scrivere la loro lettera d'addio.
Se un simile componimento fosse stato assegnato, a tempo debito, al liceo Tasso, un'eccessiva identificazione o, al contrario, un troppo vigile distanziamento, avrebbero potuto suonare come campanelli d'allarme.
Per intanto, il professore d'oltralpe è sospeso dal servizio; a quanto pare, di certe cose non bisogna parlare.
Questa, la ragione, un tabù: in Europa e nel XXI secolo.
C'è naturalmente chi cerca di mimetizzarlo in un'apparente critica didattica: l'insegnante non avrebbe affrontato preventivamente l'argomento con i suoi alunni. Bravo merlo! Se il testo, da narrativo, diventa argomentativo, il conformismo prevale e all'insegnante viene restituito, più o meno bene, ciò che egli stesso ha detto.
Non mistifichiamo, dunque, si propone la politica dello struzzo.
E viene in mente l'episodio della Zanzara, il giornalino scolastico per cui si chiamarono i gendarmi. Aveva parlato di sesso, argomento out, anche se le ragazzine restavano incinte a quindici anni.
L'AIDS si è diffuso soprattutto col silenzio, ma la paura che siano le parole, ad essere contagiose, resta patrimonio delle società arretrate e dei ceti sociali più retrivi.
Ciò non sorprende, disgusta invece che le autorità preposte, in nome di una customer satisfaction che andrebbe lasciata ai supermercati, siano sempre pronte a mettere in forse una cosa seria come la libertà di insegnamento, sull'onda di spinte umorali, tanto plebiscitarie, quanto culturalmente inconsistenti.
A queste pavide burocrazie ministeriali vanno addebitate molte responsabilità del rapido attecchimento di quel germe populista, altrove esecrato.

domenica 2 dicembre 2012

luoghi






Sarmede paese delle favole
Ogni anno, per lo più nel mese di dicembre, si svolge a Sarmede, in provincia di Treviso, la Mostra Internazionale dell'Illustrazione per l'Infanzia. A parteciparvi sono abitualmente i più grandi illustratori a livello europeo e mondiale, ma vi sono sezioni aperte anche per le nuove generazioni di illustratori.
Durante il periodo della mostra si svolge inoltre la manifestazione denominata Le Fiere del teatro che rievoca antiche feste popolari con artisti di strada, mangiafuoco, burattinai e saltimbanchi.
Rivolta alle scolaresche è La Scuola va a Teatro, rassegna di teatro e laboratori per 
bambini e ragazzi.













venerdì 30 novembre 2012

convegno

http://www.hepl.ch/cms/accueil.html


« Sociologie et didactiques : vers une transgression des frontières ? »
13 et 14 septembre 2012
Haute Ecole Pédagogique de Vaud (Lausanne)

Philippe Losego
Professeur de sociologie de l’éducation
Unité AGIRS
Haute Ecole Pédagogique de Vaud
La sociologie et les savoirs : des relations complexes
"Affirmer globalement que l'école est à la fois le
reflet de la société et le moyen de consolider son ordre est
facile. Mais il est beaucoup plus ardu d'aller au-delà des
correspondances approximatives et de mettre au jour les
médiations." (Isambert-Jamati, 1969)

Ce colloque et l’intérêt qu’il a suscité manifestent une évolution de la sociologie : on le sait, la sociologie de l’éducation (surtout francophone) a longtemps tourné autour des savoirs et des apprentissages comme on tourne autour du pot, sans oser traiter ces objets de front.
On a longtemps dit que la sociologie était relativiste et risquait d’effacer la frontière entre le vrai et le faux ou de dénier toute objectivité aux savoirs scolaires, voire de dissoudre les savoirs (Berthelot, 1996). Et, en définitive, une division de travail assez commode s’était installée (elle perdure encore largement) qui confiait l’analyse dite « interne » des savoirs à divers spécialistes (épistémologues, didacticiens, historiens des sciences, etc.) et l’analyse « externe » aux sociologues.
L’analyse interne rendait compte de la cohérence, de la rationalité, des savoirs, de leur valeur de vérité, y compris de la dynamique de progrès, bref de tous leurs aspects positifs.
L’analyse externe étudiait au contraire les déformations des savoirs. Cesdéformations étaient censées être d’origine sociale : ce sont les « représentations sociales » (lorsqu’on dit « représentations sociales » on entend toujours « représentations erronées »), les erreurs, les influences, les biais culturels, mais aussi la fraude, la triche, les rumeurs, les effets de mode, bref, tout ce qui est péjoratif dans les savoirs.
Au fond, les didactiques tendaient à rendre compte des trains qui arrivent à l’heure et la sociologie était la science des trains qui arrivent en retard ou qui déraillent.
Ce fait n’est pas propre au champ de l’éducation. Certains auteurs comme Mark Granovetter (2000) en sociologie économique, Bruno Latour (1989) en Sociologie des sciences ou Michaël Young (1997) en sociologie de l’éducation ont noté que les économistes, les épistémologues ou les didacticiens se sont emparé des noyaux de rationalité et ont renvoyé les sociologues aux frontières pour étudier tout ce qui est marginal, déviant.
Mais ces auteurs ont aussi noté que les sociologues eux-mêmes entretenaient des rapports étranges avec la notion de social. Pour traiter des savoirs, la sociologie a longtemps eu besoin de postuler une brèche, un décalage, un arbitraire. Si on prend l’ouvrage « Sociologie de l’école » dirigé par Marie Duru et Agnès Van Zanten, (1992), un manuel très consensuel (publié en 1992 et réédité 2 fois depuis) qui représente assez bien la « science normale » en sociologie de l’éducation, on y lit la justification suivante (dans un chapitre intitulé « La genèse sociale des savoirs scolaires ») :
« les programmes officiels, loin d’être le produit d’une lente accumulation des savoirs, sont en fait la résultante d’un processus de sélection et de réorganisation permanentes au sein de la culture, qui passe par des luttes entre groupes (politiques, administratifs, enseignants, usagers), ayant des intérêts propres à défendre » (p 124).
Dans ce modèle (aujourd’hui me semble-t-il daté), le social, c’était l’arbitraire culturel, le conflit et les intérêts particuliers à défendre. Tout ça n’est pas faux, bien entendu, mais pourquoi cela a-t-il constitué si longtemps la seule entrée pour les
sociologues ? Pourquoi ce qui relève au contraire de la stabilité, du consensus et si l’on veut, de la dureté des savoirs, ne faisait pas partie du domaine du sociologue ?
Même des sociologues qui s’intéressaient depuis longtemps aux contenus scolaires, ont longtemps prétendu qu’il y aurait un équilibre très délicat à trouver entre la « référence scientifique » et la sociologie. Le terme de « référence » sousentend nécessairement un lieu (un livre, des tables sacrées, un tabernacle ?) dans lequel des savoirs stables et indiscutables seraient conservés que la sociologie pourrait dissoudre si par malheur on commettait quelque erreur de manipulation.
Si l’on relit les travaux de Jean-Claude Forquin (oui : je parle effectivement de cet auteur qui nous a presque tout appris de la sociologie anglo-saxonne des curricula (Forquin, 1989, 1997) on ne peut qu’être frappé par sa très forte ambiguïté vis-à-vis de cette sociologie et par la virulence de ses jugements notamment sur les interactionnistes (qu’il accusait de se donner à bon compte des airs de libérateurs, de ne rien avoir montré, de ne pas aller au delà de quelques déclarations d’intention, etc.). On peut s’étonner qu’il récuse l’idée même que les savoirs puissent être socialement construits.
Il ne s’agit pas de faire naître une polémique à propos d’un auteur qui, hélas disparu, ne pourrait répondre. Ce qui m’intéresse, c’est au nom de quelle conceptiondu social, cette sociologie des curricula était présentée :
« C’est justement parce que la pensée scientifique et savante est une pensée « publique » qu’elle n’est pas une pensée « sociale », c'est-à-dire qu’elle est capable de transcender les corporatismes, les clientélismes, les communautarismes et les
collectivismes, aussi bien que les individualismes intellectuels ».(Forquin, 1996, p. 170)
Le social, c’était le mal. Opposé au « public » un peu comme le profane l’est au sacré, le social était une collection de tous les vices. C’était une sorte de « monde à l’envers », le monde de l’anti-vérité.
On peut se demander d’où vient ce mépris pour le social de la part même des sociologues, quand on se rappelle que Durkheim, notamment celui des Formes élémentaires de la vie religieuse, considérait les catégories de la pensée rationnelle
comme des constructions sociales. Mais cela n’avait rien de « relativiste » : il ne considérait pas ces constructions comme discutables ou négociables à l’infini. Il voulait simplement dire : il n’y a aucun savoir hors de la société. Il n’y a pas nécessairement de contradiction entre le caractère social des savoirs et leur objectivité. Les savoirs, pour être sociaux, n’en sont pas pour autant nécessairement « mous », « conflictuels », ou « faux». Selon une idée assez commune au début du XXe siècle (on la trouve aussi chez Weber ou Simmel) la rationalité des savoirs vient de l’augmentation en masse des
sociétés et de l’abstraction des règles de conduites qui en découlent. Un bel exemple de cela chez Durkheim est son interprétation de la scolastique médiévale : cette rationalisation de la foi chrétienne était le produit assez direct de l’afflux de masses estudiantines sur la ville de Paris. Cet afflux a obligé la corporation des professeurs à rationaliser l’enseignement pour lutter contre le charlatanisme, provoqué par l’augmentation du marché de l’enseignement. Mais Durkheim ne décrit pas non plus un monde complètement rationnel harmonieux, consensuel, etc. comme on le lui reproche souvent. Il voit aussi de l’arbitraire culturel : c’est ainsi qu’il explique l’émergence de l’humanisme des collèges, (culture essentiellement littéraire), entre le XVIe siècle (le siècle de la technique) et le XVIIe (siècle de la science classique). Cette culture sert l’intérêt des
classes oisives, soucieuses de se distinguer des classes industrieuses.
En définitive, Durkheim suivait ce que Bloor (1983) appellerait plus tard le « principe de symétrie » : pour lui, la sociologie devait expliquer le vrai et le faux, les ruptures et les continuités, les arbitraires et les nécessités.
Comment se fait-il que la sociologie soit devenue la science du mou, du conflictuel et du « biais culturel » ? Ce que l’on peut constater, c’est que le concept central de la sociologie a descendu les échelles d’analyse : de l’idée de société au début du XXe siècle, on est passé aux rapports de classes dans les années 1960, et de là aux individus en interaction dans les années 80. Etant donné que toute discipline (du moins tant que le principe disciplinaire commande) tend à ramener ses objets d’études à son concept central, Durkheim faisait varier la culture scolaire en fonction des sociétés. Il ne prenait finalement pas trop de risque : on ne change pas de société tous les jours, on est donc là dans une sorte de relativisme à moindre frais.
En revanche, rapporter les cultures scolaires aux cultures de classe sociale, comme on l’a fait dans les années 1960-70 était autrement plus dangereux. Et d’un certain point de vue, l’idée de Raymond Williams (1961) ou de Bourdieu et Passeron
(1970) selon laquelle la culture scolaire dépend de la culture de la classe sociale qui exerce son hégémonie sur l’école risquait fort de déboucher dans la funeste théorie des deux sciences « à la Lyssenko » (Lecourt, 1995). C’est probablement pourquoi la sociologie de la reproduction reste une critique des humanités (comme la sociologie de Verret (1975), d’ailleurs) mais s’arrête là : s’il était « acceptable » (bien que tout à faire contestable en réalité) de relier les humanités à la bourgeoisie, il était interdit de faire de même avec les mathématiques et les sciences, devenues dominantes
dans les systèmes d’enseignement des années 1970.
Ensuite, est apparu ce concept d’interactions sociales, sur lequel il y aurait beaucoup à dire, et notamment du bien : ce sont tout de même les interactionnistes qui ont montré que, au-delà des curricula officiels, les enseignants font varier les
savoirs enseignés en fonction des situations, de leurs élèves et notamment des origines sociales de ces élèves. Si l’on considère les interactions comme un niveau d’analyse parmi d’autres, c’est très intéressant. En revanche, il est vrai que si on le considère comme une « dernière instance », comme « le niveau où tout se passe », si on réduit tout le social aux interactions interindividuelles, comme cela a été le cas dans les années 80, on est devant une alternative :
- soit on considère que les savoirs varient complètement en fonction des interactions, ce qui, pour le coup, relève d’un relativisme très « dissolvant ».
- Soit, on s’interdit d’étudier les savoirs scolaires, on se contente de décrire l’ordre et le désordre, les stratégies individuelles, etc. comme c’est le cas de très nombreuses études sociologiques de l’école.
D’ailleurs, au cours des années 80, la question des savoirs a été globalement abandonnée par les sociologues, à l’exception de Viviane Isambert-Jamati (1970, 1984, 1990) et Lucie Tanguy (1983a, 1983b, 1986).
Cet abandon s’est fait soit au nom d’un rationalisme militant qui professait que désormais, grâce aux sciences et aux mathématiques, la culture scolaire n’avait plus rien de social et que les inégalités scolaires se devaient essentiellement à des
stratégies familiales. C’est le cas de toute une sociologie individualiste de l’éducation (Boudon, 1973; Berthelot, 1983, 1993).
Il y avait aussi une sorte de rationalisme paresseux, qui se contentait de laisser de côté la question des savoirs et des apprentissages, parce qu’elle était trop compliquée pour les sociologues.
Alors, que s’est-il passé depuis? Pourquoi aujourd’hui, les sociologues s’intéressentilplus aux savoirs et aux apprentissages ?
Il me semble qu’il y a eu, en sociologie, comme dans d’autres disciplines, une sorte de révolution au cours des années 1990 : désormais on utilise moins les objets pourvalider des théories, mais celles-ci pour comprendre ceux-là. Dans certains travaux
sociologiques publiés en ces années 1990 (Tanguy, 1991; Charlot, Bautier & Rochex, 1992; Grosbois, Ricco & Sirota, 1992; Lahire, 1993; Ropé & Tanguy, 1994; Dutheil, 1996), les savoirs scolaires ne sont plus des prétextes1.Certains auteurs (Gibbons et al., 1994) ont traité à l’époque d’un « mode 2 » de production de la recherche, dans lequel les structures disciplinaires s’affaiblissaient face aux objets. Au delà des
erreurs de périodisation historique de ces travaux, il y a tout de même quelque chose de vrai. Même si on identifie bien des écoles théoriques, on n’a plus l’effet d’écrasement des objets par un concept central, par un niveau d’analyse ou encore
par une méthode.
De ce fait, le rapprochement entre la sociologie et d’autres disciplines autour d’objets communs est plus facile. Il est probable que beaucoup de sociologues refuseraient aujourd’hui d’identifier le concept central de la sociologie ou le niveau d’analyse pertinent (Grossetti, 2004).
On peut constater qu’après avoir descendu les échelles d’analyse comme je l’ai dit auparavant (de la société aux classes sociales, des classes sociales aux interactions entre individus) la sociologie a remonté ces échelles : dans les années 1990 on a insisté sur les structures intermédiaires (organisations et réseaux) et dans les années 2000, le terme de société est réapparu. Il n’est pas redevenu un concept central, mais il n’est plus honteux.
La notion de société réapparait dans la sociologie à la faveur de ce que l’on appelle « mondialisation », qui dans le domaine de l’éducation, se traduit notamment par les évaluations internationales (TIMMS, PIRLS, mais surtout PISA) qui désormais mettent les pays en compétition et occupent fortement les sociologues de l’éducation : rares sont aujourd’hui les ouvrages de cette spécialité qui ne traitent pas des évaluations, quand ils ne reposent pas entièrement dessus. Au delà de tout ce que l’on peut reprocher à ces évaluations en tant que telles (cf. la communication de Nathalie
Sayac dans le présent colloque), elles appellent trois commentaires :
1.- Paradoxalement, nées pour relativiser les particularismes et les institutions nationales, elles ont souligné les différences institutionnelles entre pays et ont donc accrédité l’idée que des choix politiques sont possibles (Mons, 2007) au niveau des
Etats, faisant du même coup réapparaître les sociétés nationales. Ce n’est pas un hasard si l’ouvrage de F. Dubet, Marie Duru et Antoine Vérétout (2010) qui repose presque exclusivement sur les évaluations internationales s’intitule «Les sociétés et leur école ».
2.- Qu’on le veuille ou non, en relativisant les particularités nationales (diplômes, programmes, etc.), elles ont placé les curricula, les savoirs et les apprentissages au coeur des débats. Depuis les années 2000, elles ont déclenché une grande vague de réforme des plans d’études. L’idée de société ayant réémergé, il est à nouveau possible aujourd’hui de décrire des savoirs en construction, à différents niveaux,
notamment à l’échelle des Etats, sans passer pour un provocateur relativiste.
3. Ces évaluations nationales ou internationales ont réaffirmé avec force que les inégalités scolaires sont des inégalités sociales et qu’elles sont aussi et surtout cognitives et pas seulement des problèmes de stratégies, de filières ou de modes de scolarisation (Broccolichi, Ayed & Trancard, 2010).
Enfin, il faut remarquer que notre colloque ne se tient pas n’importe où mais dans une institution de formation des enseignants. L’intérêt de la sociologie pour les savoirs scolaires et pour leur enseignement au concret est aussi la marque d’une sociologie qui s’installe dans la formation des enseignants. On sait que c’est une des conditions historiques de la création de la sociologie britannique des curricula dans
les années 1960 : des sociologues intervenaient dans la formation des enseignants.
A contrario, elle s’est éteinte à l’orée des années 90 lorsque la sociologie a été écartée de la formation (Young, 1998).
Dans une haute école pédagogique ou un IUFM, la sociologie se préoccupe plus des savoirs et de la didactique d’une part parce que les futurs enseignants, surtout ceux du secondaire, tirent leur identité professionnelle des savoirs qu’ils vont enseigner, contrairement aux étudiants des départements de sociologie des universités et d’autre part parce que l’on y échappe plus facilement au séparatisme disciplinaire que dans les universités. En conclusion provisoire, je dirai que le colloque qui commence aujourd’hui est révélateur de ces évolutions de la sociologie : on trouve des sociologues souvent
impliqués dans la formation des enseignants et plus préoccupés de saisir des objets que de valider des théories. Ils utilisent des méthodes diverses et on les trouve à tous les niveaux d’analyse : au niveau des rapports entre programmes et rapports sociaux, des liens entre cultures scolaires et cultures sociétales, des organisations scolaires, des interactions dans les classes et enfin, au niveau de la fabrication des objets de savoir que sont les manuels. Je pense d’ailleurs que le problème crucial pour les sociologues des savoirs restera celui d’articuler ces différents niveaux
d’analyse.
Références
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Berthelot, J.-M. (1996). La science est-elle soluble dans le social? Note sur la norme du vrai
et les sciences sociales. Revue Européenne de sociologie, XXXIV (104), 181-186.
Bloor, D. (1983). Sociologie de la logique. Les limites de l'épistémologie. Paris: Pandore.
Boudon, R. (1973). L’Inégalité des chances. Paris: Armand Colin.
Bourdieu, P.& Passeron, J.-C. (1970). La Reproduction. Eléments pour une théorie du système
d'enseignement. Paris: Minuit.
Broccolichi, S., Ayed, C. B.& Trancard, D. (2010). Ecole : les pièges de la concurrence.
Comprendre le déclin de l’école française. Paris: La Découverte.
Charlot, B., Bautier, E.& Rochex, J.-Y. (1992). École et savoir dans les banlieues...et ailleurs.
Paris: Armand Colin.
Dubet, F., Duru-Bellat, M.& Vérétout, A. (2010). Les sociétés et leur école. Emprise du diplôme
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Dutheil, C. (1996). Enfants d'ouvriers et mathématiques. Les apprentissages à l’Ecole primaire.
Paris: L'Harmattan.
Forquin, J.-C. (1989). Ecole et Culture. Le point de vue des sociologues britanniques. Bruxelles:
DeBoeck Universités.
Forquin, J.-C. (1996). Ecole et Culture. Le point de vue des sociologues britanniques (2e ed.).
Bruxelles: De Boeck.
Forquin, J.-C. (1997). Les sociologues de l’éducation américains et britanniques, présentation et
choix de textes Bruxelles: De Boeck/INRP.
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Grosbois, M., Ricco, G.& Sirota, R. (1992). Du laboratoire à la classe, le parcours du savoir.
Etude de la transposition didactique du concept de respiration. Paris: ADAPT (SNES).
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Isambert-Jamati, V. (1969). Une réforme des lycées et collèges : essai d'analyse sociologique
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Isambert-Jamati, V. (1984). Culture technique et critique sociale à l’école élémentaire. Paris:
PUF.
Isambert-Jamati, V. (1990). Les savoirs scolaires. Enjeux sociaux des contenus d’enseignement
et de leurs réformes. Paris: Éditions universitaires.
Lahire, B. (1993). Culture écrite et inégalités scolaires. Sociologie de l'échec scolaire à l'école
primaire. Lyon: Presses Universitaires de Lyon.
Latour, B. (1989). La science en action. Paris: La découverte.
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Ropé, F.& Tanguy, L. (1994). Savoirs et compétences. De l'usage de ces notions dans l'école et
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10
Tanguy, L. (1983a). Les savoirs enseignés aux futurs ouvriers. Sociologie du travail, 3, 336-
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Tanguy, L. (1986). « La question de la culture technique à l'école Formation emploi, 13, 35-42.
Tanguy, L. (1991). L’enseignement professionnel en France. Des ouvriers aux techniciens. Paris:
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Verret, M. (1975). Le temps des études. Paris: Honoré Champion.
Williams, R. (1961). The Long Revolution. Londres: Chatto & Windus.
Young, M. (1997). Les programmes scolaires considérés du point de vue de la sociologie de
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britanniques: présentation et choix de textes (pp. 173-200): De Boeck-INRP.
Young, M. (1998). The curriculum of the future. From the « New Sociology of Education » to a
critical Theory of Learning. Londres: Falmer Press.
1 Il est intéressant de noter que, du côté de la sociologie, ce sont surtout des femmes qui ont ouvert la boite
noire des savoirs à l’école.
22 Dans les années 1980-1990, qui disait « la sociologie étudie les sociétés » ou les « problèmes de société» trahissait du même coup sa non-appartenance à la sociologie.

giovedì 29 novembre 2012

stili di apprendimento


éduveille




Marie Gaussel

Tra vaghezza concettuale e interesse commerciale: quale validità scientifica per la teoria degli stili di apprendimento?


Leggendo un recente post sull'impostura delle teorie sugli stili di apprendimento si apprende che c'è una polemica in corso, a questo proposito, sin dal 2010. In realtà il sospetto di mistificazione ha origini più datate, giacché sin dal 2004 l'équipe britannica di Franck Coffield ha pubblicato uno studio, per il Learning & Skills Research Center, che metteva in forse la validità di tali teorie. Lo stesso concetto di stile di apprendimento è caratterizzato, sin dalle origini delle ricerche in questo campo, dalle divergenze teoriche, epistemologiche e metodologiche che dividono in differenti correnti i ricercatori. L'imbarazzo è spesso imputabile alla debole base empirica delle ricerche, e alla scarsa affidabilità (carenze di ripetibilità) e validità (carenza di analisi fattoriale di conferma) degli strumenti di misurazione.
Le ricerche sugli stili d'apprendimento hanno prodotto un numero considerevole di teorie, per la maggior parte tautologiche e vicendevolmente tributarie, che mescolano modelli teorici e strumenti di misurazione. I dispositivi psicometrici che derivano da tali ricerche sono offerti in forma di test di autovalutazione e sono accessibili, in genere a pagamento, al grosso pubblico. La proliferazione di questi strumenti, spesso connessi a forti interessi commerciali, contribuiscono ad alimentare un senso di confusione. Inoltre, nella pratica, queste procedure implicano due limiti: l'individuo che risponde al questionario deve avere il livello d'istruzione necessario per comprenderne gli enunciati e essere abbastanza maturo per saper esprimere le opzioni relative ai propri meccanismi cognitivi e affettivi.
Nello studio di Coffield, 13 tra i modelli più conosciuti, selezionati tra un centinaio di quelli offerti, vengono passati al setaccio. I modelli scelti sono stati selezionati sulla base di tre criteri specifici: la valenza di contributo teorico, la loro riconosciuta utilizzazione e il loro grado di influenza su altre teorie. Le teorie sono classificate in cinque tipologie:
  • modelli centrati su fattori genetici;
  • modelli centrati su fattori cognitivi;
  • modelli centrati su fattori permanenti della personalità;
  • modelli centrati su preferenze in contesto evolutivo, ma stabili;
  • modelli centrati sulle strategie di apprendimento.
    La metodologia è semplice. L'équipe ha fissato 4 criteri in base ai quali valuta l'affidabilità, la validità, il livello di predittività e la coerenza di tali teorie e dei loro strumenti di misurazione, in genere in forma di questionari. Il risultato è senz'appello, e un solo modello ne esce bene – mentre le teorie più note vengono designate come incoerenti – quello di Allinson e Hayes, i quali stessi preconizzano l'utilizzazione del loro strumento (Cognitive Style Index) più in una prospettiva di orientamento e indirizzo, che di formazione.
    In conclusione Coffield et al. Mettono in guardia i professionisti della formazione dalla tentazione di utilizzare queste teorie con i loro alunni, in parte anche a causa del mancato consensus sull'applicazione pratica degli strumenti di misurazione e sulle loro implicazioni riguardo la pedagogia. L'idea che la classificazione dello stile di apprendimento di un alunno renda automaticamente più efficace l'insegnamento, è ingenua e pone problemi sul piano della generalizzazione. Ancor peggio, sarebbe credere che l'atto di apprendere potrebbe diventare facile, e quasi automatico, senza richiedere sforzo del discente, nella misura in cui il suo stile fosse rispettato e alimentato.

Riferimenti
Coffield Franck, Moseley David, Hall Elaine & Ecclestone Kathryn (2004). Should we be using learning styles? What research has to say to practice. London : The Learning and Skills Research Center. En ligne : <http://www.google.fr/ur … ww.arasite.org%2FRMdata>.
Vaufrey, C. (2012). Les styles d’apprentissage, une vaste rigolade ? Consulté novembre 16, 2012, de http://cursus.edu/dossiers-articles/articles/18808/les-styles-apprentissage-une-vaste-rigolade/