Tutte le analisi condotte sul tema della crescita economica indicano nella disponibilità di un capitale umano di qualità uno degli ingredienti fondamentali per sfruttare appieno le nuove tecnologie, per favorire l’innovazione e l’aumento della produttività.
I
saggi non affrontano il problema della scuola come questione
meritevole di una propria specificità, ma come variabile
dell'ossessivo mantra della crescita economica, assunto ad
indiscutibile orizzonte di ogni analisi.
Fulcro
del ragionamento, la nozione di capitale
umano,
non nuovissima, ma ormai prepotentemente entrata nel novero degli
assiomi mainstream1.
Incorporando
l'istruzione tra i fattori che determinano il capitale umano, la si
sottrae all'ambito dei consumi, per inserirla nel novero degli
investimenti. L'operazione ha l'indubbio merito di spostare le spese
per la scuola da un contesto individuale e voluttuario ad uno sociale
e produttivo, che dovrebbe incentivare una più generosa allocazione
di risorse.
Va
da sé, che questa concezione supera definitivamente quella
aristotelica della conoscenza
disinteressata,
o la contrapposizione di Seneca, tra otium
e
negotium,
punti di vista che sembravano affermare una concezione strettamente elitaria del sapere.
Sembra,
anche, sancire ufficialmente la fine, da tempo annunciata, di quella
cultura umanistica che
ha prodotto una visione del mondo complessa eppure sempre animata
dalla speranza di poter spiegare tutto nel modo più chiaro, adeguato
alla mente dell'uomo, alle sue domande, ai suoi timori2.
Alla
luce della consapevolezza dei limiti etnocentrici che hanno
storicamente gravato sulle pretese di universalità dell'umanesimo,
una sua messa in mora può avere anche caratteri progressivi, badando
– al solito – di non fare confusioni tra bambino e acqua sporca.
Intanto,
tornando all'incipit, le tre parole-chiave: tecnologie, innovazione,
produttività, ci confermano che il termine istruzione,
che compare nel titolo di questo quarto punto della trattazione dei
saggi, non è scelto a caso. Di istruzione tecnica, si parla, e non
di educazione.
Eppure,
di educazione, talvolta nell'obsoleta formula di educazione
civica,
sembra esserci un gran bisogno, e periodicamente – in relazione a
questo o a quel fatto di cronaca – la scuola è richiamata a gran
voce, dai media, a questo suo dovere istituzionale. Se ne ha, in tali
casi, una idea semplicistica, di stampo comportamentista e fondata su
una pretesa condivisione di norme e valori sociali, ben poco
difendibile dal punto di vista epistemologico.
C'è,
però, un'altra idea di educazione che consiste nel tentativo di
fornire gli strumenti per orientarsi nella complessità del presente.
È
ciò che precisamente rimpiange Marco Lodoli, è ciò che, in
programmi per la scuola elementare che sembrano ormai lontanissimi
(1985), si definiva lo sviluppo del senso
critico.
Questa
prospettiva ambiziosa andava oltre la pur necessaria acquisizione
delle capacità di saper fare la raccolta differenziata, mirando alla
formazione di una cittadinanza
consapevole che
potesse contribuire a una democrazia partecipata e non unicamente
ridotta alla celebrazione dei riti ricorrenti della liturgia della
società dell'immagine.
Viene
da chiedersi se questo non sia un obiettivo più che sufficiente sul
piano del potenziamento del capitale umano, che giustifichi i
necessari investimenti. Viene anche da chiedersi se, il non mettere
al primo posto, nelle finalità della scuola, lo sviluppo della
coscienza democratica, ma quello della crescita economica, non
sottolinei con enfasi il rapporto di subordinazione a questa, di
quella, che si vuole affermare nella società.
C'è
da aggiungere che, comunque, l'ipotesi di lavorare sulla formazione
critica del cittadino – Castoradis parla di una paideia
democratica,
Gadamer di Bildung,
Žižek
di capacità di un uso
pubblico della ragione – comporta
tempi lunghi, mentre i saggi sembrano avere una fretta del diavolo.
Di
conseguenza, migliorare le performance dei sistemi di istruzione e
formazione è fondamentale per assicurare nel medio termine una
crescita economica in grado di riassorbire la disoccupazione e la
sottoccupazione di cui è afflitto il nostro Paese. D’altra
parte, la formazione si interseca strettamente con
ricerca, innovazione e sviluppo: di conseguenza, la sua
efficienza dipende dalla rapida connessione di tutti questi
elementi e, dunque, dalla capacità del nostro Paese di rendere
quanto più “corta” possibile questa filiera.
Nel
successivo paragrafo viene affrontato il problema dell'abbandono
scolastico, i saggi identificano correttamente il tempo-scuola, come
un fattore su cui intervenire:
le
analisi disponibili indicano come il miglior strumento di
contrasto all'abbandono sia il prolungamento della scuola al
pomeriggio negli anni del primo ciclo, mentre oggigiorno il
tempo pieno alle elementari è diffuso solo in alcune regioni
(non a caso, quelle in cui la dispersione è minore) ed è di
fatto inesistente nelle scuole medie.
Sembrerebbero
quindi dar ragione alla lotta, strenua e vana, condotta dagli
insegnanti in difesa di quel tempo pieno, che dopo aver vacillato
sotto i colpi della parola d'ordine reazionaria della restituzione
dei bambini alle famiglie,
correlata agli appetiti dei sostenitori di un privatistico sistema
formativo integrato, era
poi stato drasticamente falcidiato dalle ristrettezze di bilancio.
Le
attività scolastiche nel pomeriggio non dovrebbero però essere una
mera replica delle lezioni frontali della mattina. L'estensione
del tempo scolastico consentirebbe, infatti, di scomporre i gruppi
classe, lavorando su piccoli numeri, sperimentando metodologie
didattiche innovative (ad esempio, apprendimenti cooperativi e
attività sociali) e individuando percorsi specifici per i
ragazzi maggiormente a rischio.
Non
sappiamo se, nella frase d'esordio – che evoca il palinsesto di una
sgangherata TV commerciale – si adombri l'idea che i saggi si son
fatti, della scuola a tempo pieno, la quale, estranea alle repliche,
funzionava esattamente come nel prosieguo del testo: con i piccoli
gruppi del sistema dei laboratori, con la didattica cooperativa, con
i percorsi individualizzati.
Se
invece così fosse, è evidente che i saggi stanno proponendo ciò
che già si fa, cioè quelle attività integrative che, spogliate
dalle accattivanti vesti della propaganda, sono, in virtù della
penuria di risorse dell'autonomia stracciona, il contrario di ciò
che si dice: pluriclassi con comunicazione didattica verticale e
contenuti standardizzati.
Eppure,
poco più su, i saggi avevano disegnato l'identikit degli alunni a
rischio di dispersione:
si
tratta di maschi, tipicamente immigrati di prima generazione,
provenienti da un background socio-economico e culturale svantaggiato
e che hanno già perso almeno un anno nel corso del primo ciclo.
Sono
proprio loro, e di giorno in giorno lo tsunami sociale erode i
residui margini di vantaggio delle femmine e degli autoctoni.
Con
questi disuguali, si vuol continuare a far parti uguali e perciò
anche loro hanno diritto alla regolare dose di compiti a casa,
richiesta dall'orario curricolare abbreviato. Solo, che non hanno
mamme che sappiano aiutarli a farli.
Se
il fallimento scolastico torna ad avvicinarsi ai livelli degli anni
'60, è perché l'organizzazione della scuola è tornata ad essere
quella degli anni '60, adeguandosi a un prepotente disegno di
restaurazione dei privilegi di classe.
Bisognerebbe
tornare a imparare, esercitarsi e approfondire a scuola, non tra mura
domestiche tanto diverse tra loro. Ma non sembra questa la via
indicata dai saggi, che, anzi, fanno sospettare una propensione per
la reintroduzione, dopo mezzo secolo, di selezioni precoci verso
scuole di avviamento al lavoro, rispetto alle quali, il consenso
dell'opinione pubblica è propiziato dal combinato disposto di
aspettative di ripresa produttiva e di ansie securitarie:
nella
migliore delle ipotesi, la futura forza lavoro non avrà le
competenze minime richieste da processi produttivi in rapida
evoluzione; nella peggiore, genererà emarginazione e rischi per
la sicurezza in numerose aree, specialmente nelle grandi città.
In
quest'ultimo passaggio, in cui non è difficile intravedere gli echi
del dibattito francese ai tempi della rivolta delle banlieux,
il documento tradisce un difetto di aggiornamento, ancora più
evidente nella chiusura del paragrafo, che non sembra aver registrato
le riserve, nel frattempo intervenute in Europa e negli USA, sui
sistemi di valutazione:
gli
istituti scolastici dovrebbero dotarsi di strumenti di
misurazione, a cadenza regolare, dei progressi compiuti dagli
studenti a rischio di dispersione.
Se
si può concordare, fatta salva una verifica tecnica sulla congruità
della proposta e una più puntuale definizione del concetto di
merito,
sull'impianto del successivo paragrafo (Promuovere
il merito, aumentare le opportunità),
si resta invece perplessi sulle conclusioni di quello che, correlando
istruzione e spesa sanitaria, sembra inclinare a una pericolosa
deriva verso nostalgie di stato etico:
sta
aumentando l’incidenza di comportamenti (obesità,
sedentarietà, abuso di alcool, fumo, ecc.) che mettono a rischio la
salute delle presenti generazioni e generano elevati costi
sul sistema sanitario nazionale
La
disapprovazione per certi stili di vita si fonda su ragioni
economiche e non morali. Ma c'è da osservare che ogni epoca ha i
suoi criteri di evidenza che hanno una validità pro
tempore,
per rivelarsi, poi, fallaci. C'è una evidente analogia tra le
pretese del passato di voler salvare l'anima e quelle, attuali, di
voler salvare il corpo.
Si
aggiunga poi, che i criteri di costo economico non sono mancati
neppure in quelle aberranti scelte di salute pubblica da cui ci si
vorrebbe differenziare:
dunque,
al primo settembre 1941 sono stati disinfettati 70.273 pazienti.
Calcolando un costo giornaliero di 3,50 Reichsmark, abbiamo fatto
risparmiare: 4.781.339,72 kg di pane; 19.754.325,27 kg di patate. Poi
marmellata, margarina, caffè d’orzo, zucchero (…). Continuando
cosí in dieci anni l’1 per cento della popolazione non graverebbe
piú sulla spesa sanitaria4.
Per
ora, comunque, non viene proposta l'eliminazione di chi insiste a
praticare stili di vita sgraditi, e ci si limita a caldeggiare una
politica di prevenzione riassumibile nel motto, caro alla GIL: mens
sana in corpore sano. Ma
all'orizzonte si profilano soluzioni proibizioniste, la cui
minacciosità è velata dal profilo ridicolo della formulazione:
si
propone Il potenziamento delle iniziative finalizzate ad insegnare
stili di vita salutari nelle scuole e nelle università,
promuovendo, sul modello americano, l’eliminazione dai
distributori automatici collocati nelle scuole di cibo e bevande
ad alto contenuto calorico.
Ma
non deve sfuggire che la computisteria dei saggi conferma il
giudizio, già radicato in tanto senso comune, del carattere
parassitario e socialmente riprovevole di certi stili di vita.
Incoraggia, cioè quei processi di emarginazione che sono già in
atto in molte comunità scolastiche e che sono una delle cause
preponderanti di fallimenti e abbandoni.
Infine,
il documento guarda alle nuove tecnologie, con occhio più rivolto
all'input economico delle imprese, che alla salute degli utenti.
l
cambiamento della scuola passa anche attraverso la capacità di
sfruttare quello che le nuove tecnologie offrono, soprattutto
per la costruzione degli ambienti di apprendimento. Per far questo è
indispensabile il miglioramento dell’infrastruttura di rete delle
scuole, attualmente dimensionata per la gestione amministrativa,
anche in vista dell’adozione dei libri digitali,
prevista progressivamente dal 2014, la quale stimolerà una
forte domanda di formazione e di innovazione attraverso i
linguaggi digitali.
Santificato
dall'aura della modernità, il libro digitale si avvia all'adozione,
senza che si sia promosso un confronto con oculisti, neurologi,
pedagogisti e psicologi che ne attestino, per ciò che loro concerne,
l'assoluta innocuità. Intanto, nell'attesa della rivoluzione
futurista, le scuole mancano, non solo di connessioni internet, ma
anche di gessi per la lavagna e carta igienica.
Le
conclusioni del documento sono decisamente inquietanti:
Ogni
cittadino può oggi contribuire a piattaforme partecipative per
la raccolta dei dati, fungendo come sensore volontario per la
creazione di osservatori digitali della società, dell'economia,
e della salute pubblica, così generando quelli che si chiamano
i Big Data.
Nell'appello
alla collaborazione volontaria, si tacciono tutti i dubbi e i
sospetti inerenti la questione: dalle ricerche del Massachusetts
Institute of Technology,
che ha segnalato il pericolo di dissoluzione della privacy, ai
finanziamenti della CIA ad
aziende
attive in questo campo, alla lapidaria sentenza di James
Fontanella Khan, editorialista
del «Financial
Times»:
Big
Brother si è trasformato in Big Data5.
Nel
disinvolto e conturbante invito allo spionaggio di massa, con cui
concludono le loro proposte sulla scuola, i saggi smascherano il
cavallo di Troia con cui la tecnocrazia nazionale intende espugnare
gli ultimi baluardi della democrazia: lo spot disarmante
dell'innovazione, coniugato al basso livello di informazione,
garantito da un sistema dei media poco propenso a porsi domande non
autorizzate.
1La formulazione della teoria è di Theodore W.Schultz, The Economic Value of Education, 1963 e perfezionata da Gary Becker (Human Capital, 1964), esponente della Scuola di Chicago e premio Nobel nel 1992.
2Marco Lodoli, Addio cultura umanista. Per i ragazzi non ha senso, «Il Corriere della Sera», 31 ottobre 2012.
4Dallo spettacolo, Ausmerzen di Marco Paolini.
5James Fontanella Khan, Taccuino da Bruxelles, «East» 46, marzo-aprile 2013.
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