venerdì 17 maggio 2013

I saggi e la scuola. Analisi del documento



Tutte le analisi condotte sul tema della crescita economica indicano nella disponibilità di un capitale umano di qualità uno degli ingredienti fondamentali per sfruttare appieno le nuove tecnologie, per favorire l’innovazione e l’aumento della produttività.

I saggi non affrontano il problema della scuola come questione meritevole di una propria specificità, ma come variabile dell'ossessivo mantra della crescita economica, assunto ad indiscutibile orizzonte di ogni analisi.
Fulcro del ragionamento, la nozione di capitale umano, non nuovissima, ma ormai prepotentemente entrata nel novero degli assiomi mainstream1.
Incorporando l'istruzione tra i fattori che determinano il capitale umano, la si sottrae all'ambito dei consumi, per inserirla nel novero degli investimenti. L'operazione ha l'indubbio merito di spostare le spese per la scuola da un contesto individuale e voluttuario ad uno sociale e produttivo, che dovrebbe incentivare una più generosa allocazione di risorse.
Va da sé, che questa concezione supera definitivamente quella aristotelica della conoscenza disinteressata, o la contrapposizione di Seneca, tra otium e negotium, punti di vista che sembravano affermare una concezione strettamente elitaria del sapere.
Sembra, anche, sancire ufficialmente la fine, da tempo annunciata, di quella cultura umanistica che ha prodotto una visione del mondo complessa eppure sempre animata dalla speranza di poter spiegare tutto nel modo più chiaro, adeguato alla mente dell'uomo, alle sue domande, ai suoi timori2.
Alla luce della consapevolezza dei limiti etnocentrici che hanno storicamente gravato sulle pretese di universalità dell'umanesimo, una sua messa in mora può avere anche caratteri progressivi, badando – al solito – di non fare confusioni tra bambino e acqua sporca.
Intanto, tornando all'incipit, le tre parole-chiave: tecnologie, innovazione, produttività, ci confermano che il termine istruzione, che compare nel titolo di questo quarto punto della trattazione dei saggi, non è scelto a caso. Di istruzione tecnica, si parla, e non di educazione.
Eppure, di educazione, talvolta nell'obsoleta formula di educazione civica, sembra esserci un gran bisogno, e periodicamente – in relazione a questo o a quel fatto di cronaca – la scuola è richiamata a gran voce, dai media, a questo suo dovere istituzionale. Se ne ha, in tali casi, una idea semplicistica, di stampo comportamentista e fondata su una pretesa condivisione di norme e valori sociali, ben poco difendibile dal punto di vista epistemologico.
C'è, però, un'altra idea di educazione che consiste nel tentativo di fornire gli strumenti per orientarsi nella complessità del presente. È ciò che precisamente rimpiange Marco Lodoli, è ciò che, in programmi per la scuola elementare che sembrano ormai lontanissimi (1985), si definiva lo sviluppo del senso critico.
Questa prospettiva ambiziosa andava oltre la pur necessaria acquisizione delle capacità di saper fare la raccolta differenziata, mirando alla formazione di una cittadinanza consapevole che potesse contribuire a una democrazia partecipata e non unicamente ridotta alla celebrazione dei riti ricorrenti della liturgia della società dell'immagine.
Viene da chiedersi se questo non sia un obiettivo più che sufficiente sul piano del potenziamento del capitale umano, che giustifichi i necessari investimenti. Viene anche da chiedersi se, il non mettere al primo posto, nelle finalità della scuola, lo sviluppo della coscienza democratica, ma quello della crescita economica, non sottolinei con enfasi il rapporto di subordinazione a questa, di quella, che si vuole affermare nella società.
C'è da aggiungere che, comunque, l'ipotesi di lavorare sulla formazione critica del cittadino – Castoradis parla di una paideia democratica, Gadamer di Bildung, Žižek di capacità di un uso pubblico della ragione – comporta tempi lunghi, mentre i saggi sembrano avere una fretta del diavolo.

Di conseguenza, migliorare le performance dei sistemi di istruzione e formazione è fondamentale per assicurare nel medio termine una crescita economica in grado di riassorbire la disoccupazione e la sottoccupazione di cui è afflitto il nostro Paese. D’altra parte, la formazione si interseca strettamente con ricerca, innovazione e sviluppo: di conseguenza, la sua efficienza dipende dalla rapida connessione di tutti questi elementi e, dunque, dalla capacità del nostro Paese di rendere quanto più “corta” possibile questa filiera.

Nel successivo paragrafo viene affrontato il problema dell'abbandono scolastico, i saggi identificano correttamente il tempo-scuola, come un fattore su cui intervenire:

le analisi disponibili indicano come il miglior strumento di contrasto all'abbandono sia il prolungamento della scuola al pomeriggio negli anni del primo ciclo, mentre oggigiorno  il tempo pieno alle elementari è diffuso solo in alcune regioni (non a caso, quelle in cui la dispersione è minore) ed è di fatto inesistente nelle scuole medie. 

Sembrerebbero quindi dar ragione alla lotta, strenua e vana, condotta dagli insegnanti in difesa di quel tempo pieno, che dopo aver vacillato sotto i colpi della parola d'ordine reazionaria della restituzione dei bambini alle famiglie, correlata agli appetiti dei sostenitori di un privatistico sistema formativo integrato, era poi stato drasticamente falcidiato dalle ristrettezze di bilancio.

Le attività scolastiche nel pomeriggio non dovrebbero però essere una mera replica delle lezioni frontali della mattina. L'estensione del tempo scolastico consentirebbe, infatti, di scomporre i gruppi classe, lavorando su piccoli numeri, sperimentando metodologie didattiche innovative (ad esempio, apprendimenti cooperativi e attività sociali) e individuando percorsi specifici per i ragazzi maggiormente a rischio. 

Non sappiamo se, nella frase d'esordio – che evoca il palinsesto di una sgangherata TV commerciale – si adombri l'idea che i saggi si son fatti, della scuola a tempo pieno, la quale, estranea alle repliche, funzionava esattamente come nel prosieguo del testo: con i piccoli gruppi del sistema dei laboratori, con la didattica cooperativa, con i percorsi individualizzati.
Se invece così fosse, è evidente che i saggi stanno proponendo ciò che già si fa, cioè quelle attività integrative che, spogliate dalle accattivanti vesti della propaganda, sono, in virtù della penuria di risorse dell'autonomia stracciona, il contrario di ciò che si dice: pluriclassi con comunicazione didattica verticale e contenuti standardizzati.
Eppure, poco più su, i saggi avevano disegnato l'identikit degli alunni a rischio di dispersione:

si tratta di maschi, tipicamente immigrati di prima generazione, provenienti da un background socio-economico e culturale svantaggiato e che hanno già perso almeno un anno nel corso del primo ciclo.

Sono proprio loro, e di giorno in giorno lo tsunami sociale erode i residui margini di vantaggio delle femmine e degli autoctoni.
Con questi disuguali, si vuol continuare a far parti uguali e perciò anche loro hanno diritto alla regolare dose di compiti a casa, richiesta dall'orario curricolare abbreviato. Solo, che non hanno mamme che sappiano aiutarli a farli.
Se il fallimento scolastico torna ad avvicinarsi ai livelli degli anni '60, è perché l'organizzazione della scuola è tornata ad essere quella degli anni '60, adeguandosi a un prepotente disegno di restaurazione dei privilegi di classe.
Bisognerebbe tornare a imparare, esercitarsi e approfondire a scuola, non tra mura domestiche tanto diverse tra loro. Ma non sembra questa la via indicata dai saggi, che, anzi, fanno sospettare una propensione per la reintroduzione, dopo mezzo secolo, di selezioni precoci verso scuole di avviamento al lavoro, rispetto alle quali, il consenso dell'opinione pubblica è propiziato dal combinato disposto di aspettative di ripresa produttiva e di ansie securitarie:

nella migliore delle ipotesi, la futura forza lavoro non avrà le competenze minime richieste da processi produttivi in rapida evoluzione; nella peggiore, genererà emarginazione e rischi per la sicurezza in numerose aree, specialmente nelle grandi città.

In quest'ultimo passaggio, in cui non è difficile intravedere gli echi del dibattito francese ai tempi della rivolta delle banlieux, il documento tradisce un difetto di aggiornamento, ancora più evidente nella chiusura del paragrafo, che non sembra aver registrato le riserve, nel frattempo intervenute in Europa e negli USA, sui sistemi di valutazione:

gli istituti scolastici dovrebbero dotarsi di strumenti di misurazione, a cadenza regolare, dei progressi compiuti dagli studenti a rischio di dispersione.

Se si può concordare, fatta salva una verifica tecnica sulla congruità della proposta e una più puntuale definizione del concetto di merito, sull'impianto del successivo paragrafo (Promuovere il merito, aumentare le opportunità), si resta invece perplessi sulle conclusioni di quello che, correlando istruzione e spesa sanitaria, sembra inclinare a una pericolosa deriva verso nostalgie di stato etico:

sta aumentando l’incidenza di comportamenti (obesità, sedentarietà, abuso di alcool, fumo, ecc.) che mettono a rischio la salute delle presenti generazioni e generano elevati costi sul sistema sanitario nazionale

La disapprovazione per certi stili di vita si fonda su ragioni economiche e non morali. Ma c'è da osservare che ogni epoca ha i suoi criteri di evidenza che hanno una validità pro tempore, per rivelarsi, poi, fallaci. C'è una evidente analogia tra le pretese del passato di voler salvare l'anima e quelle, attuali, di voler salvare il corpo.
Si aggiunga poi, che i criteri di costo economico non sono mancati neppure in quelle aberranti scelte di salute pubblica da cui ci si vorrebbe differenziare:

dunque, al primo settembre 1941 sono stati disinfettati 70.273 pazienti. Calcolando un costo giornaliero di 3,50 Reichsmark, abbiamo fatto risparmiare: 4.781.339,72 kg di pane; 19.754.325,27 kg di patate. Poi marmellata, margarina, caffè d’orzo, zucchero (…). Continuando cosí in dieci anni l’1 per cento della popolazione non graverebbe piú sulla spesa sanitaria4.

Per ora, comunque, non viene proposta l'eliminazione di chi insiste a praticare stili di vita sgraditi, e ci si limita a caldeggiare una politica di prevenzione riassumibile nel motto, caro alla GIL: mens sana in corpore sano. Ma all'orizzonte si profilano soluzioni proibizioniste, la cui minacciosità è velata dal profilo ridicolo della formulazione:

si propone Il potenziamento delle iniziative finalizzate ad insegnare stili di vita salutari nelle scuole e nelle università, promuovendo, sul modello americano, l’eliminazione dai distributori automatici collocati nelle scuole di cibo e bevande ad alto contenuto calorico.

Ma non deve sfuggire che la computisteria dei saggi conferma il giudizio, già radicato in tanto senso comune, del carattere parassitario e socialmente riprovevole di certi stili di vita. Incoraggia, cioè quei processi di emarginazione che sono già in atto in molte comunità scolastiche e che sono una delle cause preponderanti di fallimenti e abbandoni.
Infine, il documento guarda alle nuove tecnologie, con occhio più rivolto all'input economico delle imprese, che alla salute degli utenti.

l cambiamento della scuola passa anche attraverso la capacità di sfruttare quello che le nuove tecnologie offrono, soprattutto per la costruzione degli ambienti di apprendimento. Per far questo è indispensabile il miglioramento dell’infrastruttura di rete delle scuole, attualmente dimensionata per la gestione amministrativa, anche in vista dell’adozione dei libri digitali, prevista progressivamente dal 2014, la quale stimolerà una forte domanda di formazione e di innovazione attraverso i linguaggi digitali.

Santificato dall'aura della modernità, il libro digitale si avvia all'adozione, senza che si sia promosso un confronto con oculisti, neurologi, pedagogisti e psicologi che ne attestino, per ciò che loro concerne, l'assoluta innocuità. Intanto, nell'attesa della rivoluzione futurista, le scuole mancano, non solo di connessioni internet, ma anche di gessi per la lavagna e carta igienica.
Le conclusioni del documento sono decisamente inquietanti:

Ogni cittadino può oggi contribuire a piattaforme partecipative per la raccolta dei dati, fungendo come sensore volontario per la creazione di osservatori digitali della società, dell'economia, e della salute pubblica, così generando quelli che si chiamano i Big Data. 

Nell'appello alla collaborazione volontaria, si tacciono tutti i dubbi e i sospetti inerenti la questione: dalle ricerche del Massachusetts Institute of Technology, che ha segnalato il pericolo di dissoluzione della privacy, ai finanziamenti della CIA ad aziende attive in questo campo, alla lapidaria sentenza di James Fontanella Khan, editorialista del «Financial Times»: Big Brother si è trasformato in Big Data5.
Nel disinvolto e conturbante invito allo spionaggio di massa, con cui concludono le loro proposte sulla scuola, i saggi smascherano il cavallo di Troia con cui la tecnocrazia nazionale intende espugnare gli ultimi baluardi della democrazia: lo spot disarmante dell'innovazione, coniugato al basso livello di informazione, garantito da un sistema dei media poco propenso a porsi domande non autorizzate.

1La formulazione della teoria è di Theodore W.Schultz, The Economic Value of Education, 1963 e perfezionata da Gary Becker (Human Capital, 1964), esponente della Scuola di Chicago e premio Nobel nel 1992.
2Marco Lodoli, Addio cultura umanista. Per i ragazzi non ha senso, «Il Corriere della Sera», 31 ottobre 2012.

4Dallo spettacolo, Ausmerzen di Marco Paolini.
5James Fontanella Khan, Taccuino da Bruxelles, «East» 46, marzo-aprile 2013.





























Nessun commento:

Posta un commento