Attività opzionali. Oggi Beppe comincia male: provoca i compagni e soprattutto provoca me, ignorando ostentatamente tutte le regole. Se ne resta in piedi, al centro della classe, dichiarando tutto il suo disinteresse per le nostre attività pomeridiane e la sua intenzione a non più parteciparvi.
Capisco che il resto della classe si attende qualcosa da me e ne ha ben d'onde, ho uno stile educativo direttivo e tollero poco il casino.
Ma comprendo anche che su Beppe grava un pregiudizio socialmente condiviso. Vive, con la mamma, separata da poco, il nonno e due fratellini più piccoli alle case popolari. E' già stato bocciato una volta, per eccesso di assenze, che continuano a essere tante. Incarna insomma, assieme al suo amico/nemico e vicino di casa Nichi, le stigmate di una vita disordinata e fortunosa che turba la quieta norma borghese del paesino.
E' quindi il capro espiatorio ideale su cui scaricare tutte le tensioni del gruppo, ottenendo l'equilibrio con il minimo del sacrificio.
In questi casi il mio mestiere si fa interessante e difficile. Si deve tenere insieme il gruppo senza sacrificare l'individuo. Non puoi lasciare al lupo la pecora ribelle, né puoi lasciare il gregge per andare a cercarla.
Qui come fai, sbagli, mi dico, e cerco di guadagnare tempo.
Chiedo comunque, con voce ferma, ma senza toni irosi, a Beppe di portarmi il diario. La manovra mi serve per verificare il suo livello di opponenza e, al tempo stesso, per dare al resto della classe non l'impressione che sia intatto il principio d'autorità, ma che l'adulto non ha abdicato alle sue funzioni.
Naturalmente, se Beppe si rifiutasse, passerei un brutto quarto d'ora e non ha senso ipotizzare adesso, a freddo, come avrei reagito.
Ma mi va bene, e Beppe mi porta il diario. Questo significa che non ha intenzione di rompere, ma che ha, a modo suo, innescato un dialogo da cui si attende qualcosa.
Nell'immediato dunque, passata la buriana, la situazione si normalizzerà, ma dovrò ingegnarmi a dare una qualche risposta al disagio che Beppe esprime.
Sul diario chiedo un colloquio con la famiglia, che mi sarebbe utile, ma che con ogni probabilità non ci sarà.
Ha da passà 'a nuttata e si deve lasciar tempo alla catarsi. Invito a cominciare l'intervallo in classe, con i giochi da tavolo. Nel frattempo, Beppe, ma ormai poco convinto, continua a esternare. Qualcuno tenta la sceneggiata dello scandalo, ma lo stoppo subito: Beppe sta solo cercando di mettersi in mostra, dà ben poco fastidio e in questi casi ignorare è meglio che imbavagliare. Con molta maturità, un paio di ingenui a parte, la classe mi asseconda, si concentra sui giochi e non concede il palcoscenico al piccolo ribelle.
In breve tempo l'incendio si estingue e visto che è un bel giorno di anticipata primavera, dico ai ragazzi che possiamo andare a giocare fuori.
Se infatti non lo facessi, si sentirebbero ingiustamente puniti e nelle loro casalinghe lamentele riattizzerebbero il fastidio che già molti genitori covano nei confronti della supposta "mela marcia".
So in anticipo che Beppe, per senso di dignità, non lo vorrà fare.
Siamo una piccola scuola di paese e a quest'ora non c'è neppure il bidello, in condominio con l'attigua scuola materna. Sono quindi solo.
Decido di rischiare, sapendo bene che in caso di un malaugurato incidente, le mie responsabilità civili e penali sarebbero gravi. Dubito, comunque, che si possa fare bene un mestiere senza assumersi dei rischi.
Beppe, che valuto non più tentato dal prendere iniziative inopportune, resta in classe, io porto fuori il gruppo e dò disposizioni affinché giochino solo nello specchio che posso controllare restando accanto alla porta d'uscita. Sto lì, con l'orecchio teso, a interpretare i rumori che provengono dall'interno e ogni tanto faccio una scappata a controllare Beppe.
Adesso che non deve più sostenere l'immagine di sé di fronte ai compagni, Beppe è disponibile al dialogo.
Gli chiedo di scrivermi una lettera per spiegarmi che cosa è successo. Acconsente e mentre lui è impegnato in tale attività, posso dedicarmi con meno ansie alla sorveglianza dei suoi compagni.
Terminata la lettera, è ormai assolutamente malleabile e ho buon gioco, dopo averlo rassicurato che potrà stare per i fatti suoi, a farlo riunire al gruppo.
Così mi scrive Beppe:
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Beppe, dunque, la mattina si sveglia incazzato e bestemmiante, esattamente come capita a me. Ma io ho 62 anni e lui solo 10. Qui sta il problema.
Stamattina, all'origine della rabbia, la sorellina, che lo ha svegliato anzitempo, ma qui scatta il principio di imputazione, per cui si attribuiscono a fattori esogeni lo scatenamento di pulsioni endogene.
Infine, di tutte le regole della scuola che rifiuta, gli viene in mente solo il divieto di utilizzare i distributori automatici di bevande, cioè l'inibizione a comportamenti adulti.
E' dunque di sicuro un bambino derubato, almeno parzialmente, dell'infanzia e costretto a crescere, ma in modo difforme, troppo velocemente.
Cerco di sondarlo con qualche domanda, ne ottengo racconti di abbandono davvero poco credibili, ma dietro ai quali, un vissuto abbandonitico c'è sul serio.
Probabilmente Beppe è stato costretto a occuparsi troppo dei suoi fratelli minori e quindi sollecitato a una precoce assunzione di ruoli adulti.
I tre fratellini non sono abbandonati, ma certamente lasciati un po' a sé stessi e non adeguatamente sorvegliati e seguiti. Qualche volta, per qualche ora, saranno per davvero lasciati soli in casa o giocheranno senza sorveglianza nel parchetto. Si sopravvaluta, dunque, la loro autonomia e soprattutto il senso di responsabilità del più grandicello.
Ce ne sarebbe abbastanza, anche non dando credito ai racconti di Beppe, per una segnalazione ai servizi sociali, che non farò.
Non la farò perchè credo che quando Gianni Bollea dice che le madri non sbagliano mai voglia dire che una mamma che fa tutto quello che riesce a fare, non di più e non di meno, è sempre una buona mamma. Non esistono standard da rispettare e il codice penale, rettamente interpretato, dovrebbe associare ogni precisa mancanza a una deliberata volontà di deprivare, non a un'eventuale inadeguatezza culturale. Se no, è un codice penale di classe.
Non lo farò perché sono contrario a ogni eugenetica e sono convinto che anche chi è povero, ignorante, tribolato e con difficoltà esistenziali abbia il diritto di tentare di farsi una vita completa, di fare figli e di crescerli come riesce.
Non lo farò, soprattutto perché contesto a una classe sociale geograficamente collocata, la pretesa di essere la parola fine della storia e di imporre le sue norme come verità indubitabili e universali.
Non lo farò, innoltre, perché credo che fare una scuola in difesa, preoccupata solo di non cercarsi guai, significa disertare dalla funzione democratica della scuola. In una simile scuola, i genitori dei vari Beppe si sentono giudicati, rifiutati, emarginati, minacciati dell'intervento espropriante dell'assistenza sociale. Non vengono alle riunioni e se ci vengono non lo fanno per lamentarsi della nostra sorda indifferenza alle loro difficoltà, ma per attribuire l'origine dei loro guai a qualcun'altro, magari agli extracomunitari.
Fanno come Beppe che dà la colpa alla sorellina per il fatto di sentirsi solo, perché anche noi li abbiamo lasciati soli.
Non lo farò, infine, perché si usa dire che si applica la legge per non saper né leggere né scrivere. Ma chi a leggere e scrivere insegna, questo proverbio non può competere.
La mia giornata, prolungata da queste riflessioni, è finita. Anche oggi mi sono guadagnato lo stipendio. Ho contravvenuto ad almeno un paio di leggi e regolamenti. Sono soddisfatto..