[in occasione dell'intitolazione dell'aula di scienze della scuola Di Dio a Grazia Rabellotti]
Cara Grazia,
certe volte sembra ancora ieri quel 1983 in cui un bel gruppetto di giovani insegnanti, freschi di concorso, entrarono nella scuola con una gran voglia di fare, di disfare e di cambiare.
Sono passati trent'anni e molto, forse tutto è cambiato, anche se, nel paese del gattopardo, spesso tutto cambia affinché nulla cambi.
Certamente siamo cambiati noi, e non solo fisicamente, come si può ben vedere, ma soprattutto nello spirito.
Difficile riconoscere in noi i ragazzi entusiasti, speranzosi e ribelli che siamo stati. Non vogliamo o non possiamo più esserlo e qualcuno si è perfino pentito di esserlo stato.
Fatto sta che ci sentiamo spesso stanchi, delusi, rassegnati, in tal modo assomigliando – e molto – ai vecchi professori brontoloni che volevamo contestare agli inizi della nostra carriera.
Tu, Grazia, che insegnavi scienze, ci spiegheresti che ciò che ci capita è insito nei meccanismi evolutivi – ontogenesi e filogenesi – per cui, gradualmente, dal protagonismo egocentrico dell'infante, si giunge , nella maturità, all'agnizione del ruolo effettivo di comparsa che spetta ai più.
È senz'altro vero, ma Bettina, la tua fedelissima compagna di team, potrebbe aggiungere che nell'ambito delle scienze umane, agiscono però la volontà e la libertà che possono alterare il ferreo determinismo che regna nelle scienze fisiche e matematiche.
Mi piace pensare che questo discorso, o qualcosa di simile, lo abbiate fatto davvero, in sede di programmazione, per mettervi d'accordo su come affrontare con i vostri alunni, nell'ottica dell'unità del sapere, le difficoltà cognitive che deriverebbero, in una separazione rigida degli ambiti disciplinari, da un'apparente dottrina della doppia verità.
Ma se lo avete fatto, lo avete fatto certamente nel secolo scorso. Quando ancora le programmazioni si facevano come si deve. E dico questo, per tornare alla nostra attuale stanchezza.
Abbiamo, naturalmente – dalla Falcucci alla Gelmini – delle ottime scuse.
Ma come insegnanti dovremmo diffidare del principio di imputazione, cioè di quel fenomeno, familiare alle colleghe dell'infanzia, per cui il bambino piccolo picchia lo scivolo cattivo che gli ha fatto male. È un principio che persiste, mutatis mutandis, nell'età adulta, quello – per intenderci – per cui le nostre famiglie borghesi vorrebbero risolvere i problemi di una classe difficile, eliminando le “mele marce” o quello per cui le nostre famiglie sottoproletarie addebitano a qualcun altro – gli extracomunitari o le influenze astrali – le difficoltà di organizzare la loro esistenza.
Agli uni e agli altri cerchiamo di spiegare che, nella complessità dei fatti sociali è buona cosa cercare, di assumerci le nostre proprie responsabilità, prima di andare a cercare quelle degli altri. Cerchiamo di attenerci anche noi a questa buona regola.
E dicevamo, delle programmazioni.
Io credo che vogliate darmi atto che, negli ultimi tempi, nella stragrande maggioranza dei casi, le riunioni di programmazione assomigliano sempre meno al confronto di un team e sempre di più al briefing di uno studio associato, dove ogni professionista formalizza il suo parcellizzato contributo, con scarsa osmosi reciproca.
Ce ne accorgiamo, e pensiamo che sia un effetto di quella stanchezza e di quella delusione di cui si diceva all'inizio.
E se, invece, ne fosse la causa?
Ancora Grazia, che insegnava il metodo scientifico ai suoi bambini, potrebbe venirci in soccorso e dirci: Ehi, ragazzi! Sapete cos'è successo? È successo che prima, come Galileo nel gran libro della natura, anche noi sapevamo leggere, nella realtà delle nostre classi, le ansie, le speranze e le aspirazioni della più vasta realtà sociale, cercavamo di interpretare i dati e di costruirci sopra un coerente progetto didattico e pedagogico. Adesso, invece, più Bellarmino che Galileo, vogliamo vederci riflessa, a tutti i costi, la verità che apprendiamo dalla televisione, dai giornali, da internet. Alla nostra analisi, abbiamo sostituito la sintesi altrui. Ecco cos'è successo.
Eh già, Grazia, il metodo scientifico: osservazione, ipotesi, verifica. È così che si fa una buona programmazione. È così che le nozioni, temperate alla fiamma della realtà concreta diventano carne viva, stimolo, problema da discutere. Viceversa, ridotte ad astratte formulazioni, sono arido e ostico nozionismo. E i bambini vanno male a scuola, e noi siamo stanchi e delusi e ci consoliamo dando la colpa al governo, alla globalizzazione, alla latitanza dei padri, alle mezze stagioni che non ci sono più.
Grazia alla collegialità ci credeva. Ricordo interminabili, ma appassionate, programmazioni di circolo. Lei ascoltava pazientemente torrenziali oratori, poi – quasi timidamente, o forse solo con molta educazione, chiedeva la parola e con le sue osservazioni, sempre molto pertinenti e meditate, talvolta incrinava quelle che ormai sembravano verità assodate. Allora, la discussione ripartiva da zero. E si faceva una buona scuola.
Per questo vorrei che, almeno quel gruppetto che, dopo il concorso, venne a insediarsi, più o meno stabilmente, in quello che allora si chiamava sesto circolo, prendesse oggi un impegno, affinché il ricordo di Grazia non sia solo di circostanza, ma diventi quotidiana testimonianza del suo modo sereno di concepire e fare scuola.
Il suo ricordo ci sia di stimolo per rinvigorire le nostre radici e rinnovare l'impegno che ci siamo assunti allora, in modo che, un giorno si dica; be', quei ragazzi non sono riusciti a cambiare troppo il mondo, ma non hanno permesso al mondo di cambiare troppo loro.
Sei del nostro gruppo, Grazia, e qualcosa di te resta qui con noi, a darci una mano.