sabato 22 novembre 2014

Kveta Pacovska

Kveta Pacovska (Praga, 1928) è una bravissima illustratrice di libri per l'infanzia.
Ha avuto moltissimi riconoscimenti internazionali: Golden Apple di Bratislava, Gran Prix del Premio Catalogna, La Foglia d’oro a Francoforte, il Graphic Prize, il Premio Hans Christian Andersen.
In Italia ha pubblicato:

IL PICCOLO RE DEI FIORI (Mineedition)


PIERINO E IL LUPO (Mineedition) 

CAPPUCCETTO ROSSO (Mineedition)

ALFABETO (Mineedition)

CENERENTOLA (Nord Sud)

UNO, CINQUE, TANTI (Nord Sud) 

HANSEL E GRETEL (Nord Sud)

TEATRO A MEZZANOTTE (Nord Sud)
   


sabato 25 ottobre 2014

La buona scuola, per chi e per cosa?

J. Luis Borges finge che in un'antica enciclopedia cinese così venisse classificata la fauna: gli animali si dividono in (a) appartenenti all'Imperatore, (b) imbalsamati, (c) ammaestrati, (d) lattonzoli, (e) sirene, (f) favolosi, (g) cani randagi, (h) inclusi in questa classificazione, (i) che s'agitano come pazzi, (j) innumerevoli, (k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello, (l) eccetera, (m) che hanno rotto il vaso, (n) che da lontano sembrano mosche.
Sembrerebbero le sconnesse associazioni di idee di un delirio, in realtà lo scrittore argentino propone una logica alternativa, che colloca in un oriente fittizio per giustificarne l'affrancamento dall'eredità aristotelica occidentale.



Come si vede, l'enciclopedia non dà nessuna definizione del concetto di "animale", che viene considerato intuitivo.
A partire da questa precomprensione, si procede per logica additiva, inserendo nell'insieme tutto ciò di cui, in quest'ambito, si ha notizia, nella completa assenza di gerarchie logiche e cronologiche.
Nella gran parte delle definizioni le attività del soggetto conoscente si sovrappongono e si sostituiscono all'oggetto che si vuol conoscere il quale viene perciò definito non in base a caratteristiche proprie, ma a quelle indotte.
Se si considera bene, il punto debole della classificazione non è, come si potrebbe pensare a prima vista, nelle omissioni, infatti aumentando la distanza, non c'è animale che sfugga alla categoria n e se anche vi sfuggisse, sarebbe comunque compreso nella l.
Se mai, il punto debole è la ridondanza, infatti, un cane non randagio non sarebbe incluso negli insiemi e, f, g, ma potrebbe appartenere a più di uno di quelli rimanenti.
Questa classificazione serve dunque a ben poco.
Serve a poco non perché non sia, in sé, valida (Kurba, l'elefante dell'imperatore, appartiene di certo, alla categoria a), ma perché non è attendibile.
Se, infatti, in cronache di mano differente si accennasse alla bardatura di un animale appartenente all'imperatore, a quella di un animale ammaestrato o a quella di un animale disegnato con pennello finissimo di peli di cammello, non avremmo gli elementi per comprendere che in tutti e tre i casi ci si riferisce a un elefante.



Una classificazione attendibile non può prescindere dalla definizione dell'oggetto che vuole classificare e ciò presuppone, naturalmente, la depurazione di tale oggetto da ogni aspetto di soggettivizzazione.
Anche i programmi scolastici sono un oggetto da definire e da separare dalle confuse percezioni soggettive.
La scuola di una volta, o la scuola degli anni '70 sono concetti affettivi e non scientifici, sui quali è impossibile intendersi. Eppure, e non da poco, sono stati gli orizzonti in cui si è rinchiuso il dibattito sulla scuola, non solo tra le casalinghe di Voghera, ma anche tra gli insegnanti e persino sulla stampa. Una ministra ci improvvisò sopra una fortunata riforma.
La sciagura, come nell'antica enciclopedia cinese, consiste nella coesistenza. Pur essendoci contrapposizione, paradossalmente non c'è disgiunzione, per cui si può proporre sia il ritorno alla calligrafia, che l'educazione all'affettività gay, e questo crea molto lavoro per le lobby.



Vediamo, dunque di definire questi benedetti programmi.
A quanto pare, la parola programma deriva dal verbo greco προγράϕω, che significa «scrivere prima».
Il vocabolario Treccani ne dà la seguente definizione: enunciazione particolareggiata, verbale o scritta, di ciò che si vuole fare, d’una linea di condotta da seguire, degli obiettivi a cui si mira e dei mezzi con cui s’intende raggiungerli. Più sotto, specifica: piano di lavoro che l’insegnante si propone di svolgere o che le autorità scolastiche stabiliscono venga svolto in uno o più corsi successivi di un dato ordine di scuole, ma questa seconda definizione non ci aiuta, perché rimanda all'attività di un soggetto.
La prima parte della definizione è, però, stringente, non c'è programma senza obiettivi.
Dunque, i programmi di cui parliamo si definiscono a partire dagli obiettivi che si vogliono perseguire, cioè dal chiarimento delle funzioni della scuola. 
La prima questione da chiarire è se la scuola abbia fondamentalmente una funzione educativa, o di istruzione.
Potrebbe avere (e si spera che le abbia) entrambe le funzioni, ma in questo caso andrebbero armonizzate e computate nella valutazione che si dà della scuola, oltre che, naturalmente, in quella che la scuola dà dei propri alunni.
Ma non è così, la dialettica educazione/istruzione è governata da una logica stagionalmente schizofrenica.
La domanda sociale, mediata (o inventata) dalla stampa d'informazione segue degli andamenti ondivaghi, per cui si registrano, in relazione a fatti di cronaca, continue richieste di contenuto educativo (educazione stradale, alimentare, antiomofoba, antixenofoba, antibullismo, antifemminicidio, ...) a cui segue regolarmente, in occasione della pubblicazione dei test PISA, l'imperioso richiamo a una più puntuale attenzione ai contenuti cognitivi.
Ed è poi, unicamente su questi, che, con i test INVALSI, si valuta l'azione della scuola e la formazione degli alunni.



Ma prima ancora di rivendicare la valutazione dell'azione educativa nel valore aggiunto prodotto dalla scuola, bisognerebbe notare che sia su tale piano, sia su quello cognitivo, le sollecitazioni che la scuola riceve non sfuggono alla logica additiva dell'antico zoologo cinese.
L'idea di inseguire tutte le fattispecie morali emergenti dalla cronaca è una vana fatica di Sisifo, il compito della scuola dovrebbe essere quello di fornire delle coordinate etiche da utilizzare in ogni più disparata occasione.
Allo stesso modo è folle pensare di poter insegnare informazioni che si replicano in progressione geometrica, bisogna fornire gli strumenti per cercarle, trovarle e saperle distinguere dalle bufale.
Così non è, e si fa fatica a imbastire un'idea di scuola che vada oltre l'effimero orizzonte della cronaca.
Questo perché ci mancano le due coordinate fondamentali in cui articolare gli obiettivi del programma, il punto di partenza (il bambino) e quello di arrivo (la società).
Se ci manca una definizione di questi due oggetti, diventa fallimentare il progetto di coniugare il presente con il futuro e l'individuale col sociale.



Il punto d'arrivo, cioè la società che si vuol costruire, manca per l'evidente abdicazione a un contenuto ideale della politica, ridotta a governo dell'esistente.
L'assenza di una prospettiva ideale fa si che ogni provvedimento altro non sia se non l'adattamento al presente stato di cose, cioè a una realtà fluida che cambia in tempi più rapidi di quelli della sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
Stanti così le cose, la scuola di domani che si va progettando, sarà magari, ma brevemente, la scuola di oggi, per diventare rapidamente la scuola di ieri.
Ci sarebbe da riflettere sul fatto che, in tempi in cui tutto si soggettivizza e si relativizza, l'unica attività in cui ha senso il punto di vista del soggetto, la costruzione del proprio futuro, sia invece oggettivizzata e resa subalterna ai capricci di un'economia travestita da forza naturale.
La scuola ha dunque una difficoltà a storicizzarsi, iscrivendo i propri programmi in una credibile prospettiva per il futuro. Ma se non si sa dove si va, è invece chiaro da dove siamo partiti. L'unica possibilità della scuola di sottrarsi alle spire del quotidiano è radicare i propri intendimenti nella lettera e nello spirito della Costituzione.



Ci manca, anche, il punto di partenza, il bambino. Una volta ce l'avevamo, che fosse quello tutto fantasia e sentimento dei programmi Ermini, o il piccolo razionalista critico dei Nuovi Programmi del 1985.
Erano, si sa, bambini inesistenti, ma designavano un tipo.
Nella visione cattolico-romantica o illuminista-progressista non si individuava tanto il bambino reale, quanto quello ideale, che si inseriva nelle grandi narrazioni collettive dell'epoca.
Avevano entrambi dei limiti, troppo circoscritto a una lettura superficiale dell'attualità del bambino l'uno, troppo ottimisticamente proteso sulle sue potenzialità l'altro, ma ambedue fissavano un ambito in cui articolare e rendere concreta l'idea di promuovere l'uguaglianza nel rispetto delle singole personalità.
Con le definizioni che ci sono, quando ci sono, oggi, possiamo fare ben poco. Come proporre un percorso tendente a un minimo comun denominatore a bambini che sono talvolta narcisisti senza padre e tal'altra nativi digitali?
Sembra che il bambino dei programmi Ermini e quello dei Nuovi Programmi coesistano (e questo è senz'altro possibile), ma abbiano radicalizzato, facendoli diventare difetti, i propri pregi (e questo speriamo sia impossibile).
C'è un limite antiumanistico in entrambe le definizioni, troppo governato dalle oscure forze dell'Es l'uno, completamente in balia di un Super-io tecnologico l'altro. E l'Io si è perduto.
Difficile fare scuola senza umanesimo.



Nessuno di questi problemi viene affrontato dall'ennesimo intervento governativo sulla scuola.
E', ancora una volta, un provvedimento acefalo che non parte da una seria e ponderata idea di scuola, a meno che non la si voglia ritrovare nella bonomia del titolo, che solletica nostalgie vintage e buon senso da caffè.
Il punto 4, Ripensare ciò che si impara a scuola, parte dalla considerazione sulla necessità di tener conto delle esigenze del brevissimo termine, del lavoro che non possiamo creare oggi.
Questa frase sottintende o un'errore strategico (pensiamo la scuola unicamente in funzione della futura domanda di lavoro) o un errore tattico (pensiamo alla scuola come contenitore per assorbire i disoccupati di oggi).
Proseguendo la lettura ci rassicuriamo, il governo vuole incorrere in entrambi gli errori.
Quanto agli insegnamenti da inserire o potenziare, musica, sport,  storia dell'arte, coding, economia, fino ad arrivare all'idiozia cosmopolita dell'insegnante madrelingua d'inglese, nessuno è sorretto da una seria motivazione didattica o inserito in un disegno complessivo che delinei la fisionomia culturale della scuola che si vorrebbe.
La logica che presiede l'elenco è esattamente quella del fantasioso zoologo di Borges, inserire quello che viene in mente, o meglio quello che si è leggiucchiato sul Sole. 24 Ore.
Non c'è organicità e non c'è progetto, insegnamenti si aggiungono a insegnamenti ed esperti ad esperti. La scuola è chiamata, ancora una volta, a risolvere problemi non suoi.
E' l'ennesima toppa all'abito di un triste Arlecchino. 


domenica 5 ottobre 2014

La scuola dei giocattoli

Torna in circolazione La scuola dei giocattoli di Antonio Rubino.
La ripubblica (cofanetto di 7 albi, € 30) l'editore Scalpendi.












La Hulotte






























La Hulotte è un periodico di storia naturale destinato a un pubblico vasto (dai bambini delle elementari ai ricercatori dell'università).
E' stato fondato negli anni 70 da Pierre Deom, insegnante non troppo soddisfatto del suo lavoro.
Esce due volte all'anno ed è da poco arrivato al numero 100.
La Hulotte non si trova in edicola e neppure in libreria, è diffuso solo per abbonamento e ha 150.000 abbonati, sparsi in tutto il mondo.

martedì 23 settembre 2014

Quando i bulli erano teddy boys


La scuola pubblica che ho frequentato era di pertinenza di una vasta area cittadina per cui, assieme a noi bambini della buona borghesia dei quartieri residenziali, la frequentavano i figli dei profughi istriani, quelli dei braccianti emigrati dal nordest, quelli dei primi immigrati del sud e gli orfanelli del Dominioni.
Tra loro non mancava qualche autentica canaglia (ma anche tra noi, pur se si sarebbe rivelata molto più tardi).
Tutti costoro, per miseria e promiscuità avevano idee molto precise ed evolute in ordine alla proprietà privata e al sesso, due questioni, ad essere onesti, più importanti dell'ortografia e della grammatica, in cui, invece, scarseggiavano.
Con un po' di attenzione, non era difficile rendersi conto che questi bambini di una sola cosa, nella loro vita, avevano fatto e continuavano a fare indigestione, delle umiliazioni.
Invece di averne fatto il callo, ne erano diventati reattivi e chi di noi manifestava un eccesso di puzza al naso, rischiava di vedersi somministrare una cura più energica ed efficace di qualsiasi cortisone.
Non era neppure difficile rendersi conto che il loro deludente presente condizionava negativamente le loro aspettative per il futuro, e se ciò toglieva loro la speranza, che è indispensabile veicolo di senso per l'esistenza, in compenso riduceva al minimo la paura per le conseguenze delle loro azioni.
La paura, loro la negavano e la disprezzavano, dunque attenzione, in loro presenza, a dimostrarsi dei fifoni. Soprattutto non si doveva far capire che si aveva paura di loro.
Se si commetteva quest'errore, due potevano essere le conseguenze, o divenire vittime predestinate e abituali della loro aggressività, o essere trascinati nelle più sciagurate delle loro imprese, pagandone il fio.
Insomma, a ben vedere, ti invitavano ad avere un rapporto tra pari, evitando tanto l'albagia che la subalternità.
Di simili individui è pieno il mondo e li incontri dappertutto, nelle strade, sui posti di lavoro, in treno e nei caffè. Mi fu utile, in adolescenza e nell'età adulta, avere imparato da bambino a che fare con loro.
Il bello della scuola pubblica è che ci incontri la società così com'è realmente e che, se vuoi, puoi imparare a viverci.

lunedì 15 settembre 2014

Finlandia - Italia 6 a 0.

Sull'ultimo numero di MicroMega (Pasi Sahlberg, Il modello Finlandia. Uguaglianza e d eccellenza) e sul n. 2/2014 di Cooperazione Educativa (Marianne Viglione, La scuola in Finlandia), si parla della scuola finlandese.
Grosso modo le differenze con il nostro sistema scolastico sono queste:
FINLANDIA
ITALIA
DIFFERENZA
Sono interni alla scuola e gratuiti tutti i servizi sociosanitari, psicologo, neuropsichiatra e dentista compreso. Per accedere ai servizi di neuropsichiatria infantile bisogna rivolgersi al medico di base, mettersi in lista d'attesa, andare in ospedale e pagare un ticket. In Italia perché il bambino sia aiutato ci vuole una famiglia che riconosca e capisca il problema e che abbia la voglia, il tempo e i soldi per affrontarlo.
(Del dentista, non ne parliamo)
La mensa è gratuita.


La mensa si paga. In Italia un bambino può sentirsi in difficoltà per i ritardi di pagamento dei genitori
C'è chi cambia scuola ai figli per aggirare il problema.
Nei 5 anni della scuola primaria non si danno voti. Fin dalla prima si danno voti in decimi. In Italia la scuola è basata sulla competizione e non sulla collaborazione.
Si favorisce una bassa stima di sé che non aiuta a superare le difficoltà.
Non si accetta la visione mercatista che esalta la concorrenza tra scuole.
Non esiste scuola privata.
L'autonomia scolastica impone la concorrenza.
Lo stato finanzia la scuola privata.
In Italia ogni scuola persegue obiettivi di breve periodo, mirando più ad autopromuoversi che a formare gli alunni.
Non ci sono prove di valutazione tipo Invalsi. Ci sono le prove Invalsi. In Italia c'è il rischio che si lavori più in funzione della valutazione che della formazione degli alunni.
Il sostegno è per tutti. Sostegno solo per alcuni tipi di certificazione. In Italia l'apprendimento individualizzato resta una teoria.
A qualcuno il nostro sistema può sembrare più serio, ma nella valutazione internazionale, la Finlandia è messa meglio:
OCSE 2012. EQUITA' E QUALITA'
Facciamo notare due cose:

  • fino a non molto tempo fa, la filosofia di fondo della scuola italiana era molto simile a quella della scuola finlandese, poi sono intervenute riforme radicali:
  • tutto sommato la posizione della scuola italiana è, per il momento, sia sul versante della qualità, che della equità molto migliore di quello dei paesi UE che ci affanniamo ad imitare.



domenica 2 marzo 2014

Tutto da rifare sul fronte della scuola

Sul fronte della scuola, a quasi mezzo secolo dal 68 è tutto da rifare.
Possiamo dare la colpa ai vari ministri, partendo dalla Falcucci e arrivando alla Carrozza, passando per Lombardi, Berlinguer, Moratti, Fioroni e Gelmini e tutti gli altri.
Ma la colpa è essenzialmente nostra, dove, con noi, intendo quei giovani insegnanti cresciuti nelle istanze libertarie e rivoluzionarie del 68.
La nostra disattenzione, la nostra pigrizia, il nostro invecchiare ci hanno visti soccombere a fronte di un doppio movimento che avremmo dovuto prevedere, identificare, combattere.
Il primo, un vero e proprio piano inclinato, fu l'accettazione del vincolo della "realtà". Avremmo dovuto restar fedeli alle nostre parole d'ordine e volere l'impossibile.
Invece, il tempo pieno - da forma di lotta - divenne istituzione, non si mangiò più nelle classi, finirono le corvée che decostruivano, meglio di qualsiasi predica, i ruoli di genere e il momento educativo si trasferì nei refettori, riproponendo le bolge infernali dei doposcuola degli anni 50, dove diviene istantaneo monopolio comportamentale il catalogo delle cattive maniere a tavola e si sporca dappertutto, per lasciar pulire a cuoche e bidelle. 
Era già un incubo, a cui dovevano aggiungersi i doppi e i tripli turni.

Ma anche con questo neo, il tempo pieno, rimaneva il modello di una scuola senza compiti a casa, dove non si rimandava alla capacità delle mamme l'onere della riuscita scolastica dei bambini.
Non solo, con un adeguato sistema di laboratori, si potevano trasmettere le conoscenze utilizzando strumenti non eslusivamente linguistici e garantendo all'autostima dei bambini altri terreni di gioco che non fossero il dettato, l'analisi logica, le operazioni e le tabelline.
Ma anche tutte queste cose dovevano sparire.
Negli anni 90 avvenne una vera e propria rivoluzione dei paradigmi di riferimento.
Alla scuola serena, centrata sulla dimensione affettiva e che utilizzava la collaborazione, la ricerca collettiva, i problemi, si sostituì una scuola ansiogena, centrata sull'istruzione, che utilizzava la competizione, lo studio individuale, le soluzioni.
Fu una scelta politica travestita da oggettività tecnica, meccanismo che doveva diventare il cavallo di Troia con cui, passo dopo passo, quasi impercettibilmente, si arriverà al completo snaturamento della scuola.
Ci cascò anche l'MCE e Bruner sostituì Freinet. Fu lì che iniziò la subalternità culturale, che dura a tuttoggi, di insegnanti ormai incapaci di chiedersi: ma chi lo ha detto? ma a chi giova?
Naturalmente, complici anche - in attesa dell'impresa - informatica e inglese, qualche piccolo compito a casa divenne indispensabile. pazienza se qualche mamma non lo sapeva fare o far fare.
Ma soprattutto in un siffatto tipo di scuola, la soggettività dell'alunno cedeva il passo all'oggettività delle sue prestazioni, mentre la sua individualità prendeva il posto delle dinamiche collettive. L'educazione diventava di competenza della disciplina e le difficoltà prendevano la strada discriminante del recupero e del rinforzo.
Questa concezione imbastardita dell'individualizzazione era funzionale a una precoce selezione - giunta al suo momentaneo apice con gli odierni BES - per separare tempestivamente i destini di chi proseguirà l'istruzione da quelli di chi sarà avviato,invece, alla formazione (per un lavoro che non c'è).
Le recenti Indicazioni nazionali per il curricolo sono sottilmente esplicite a riguardo e si spingono a far derivare dal dettato costituzionale l'infame intento.
Una prima ricaduta di questa svolta fu, come era ovvio, sulle riunioni di programmazione. Una volta che le difficoltà, educative e didattiche, sono ridotte a devianze, per le quali vengono messi in atto i dovuti protocolli, l'insegnante lavora per gli standard e il gruppo ne diventa sommatoria. La discussione collegiale perde di senso e il maestro si limita a vergare sull'apposito registro gli argomenti che intende affrontare.
Le riunioni del team tendono così, sempre di più a somigliare a breafing di uno studio associato di professionisti, ognuno dei quali svolge il compito di sua pertinenza.

Al mutato quadro concettuale si aggiunsero, ben presto, opportuni e sinergici provvedimenti amministrativi.
Saltarono le compresenze e fu giocoforza dare un bel taglio al sistema dei laboratori.
A questo punto, l'eversivo tempo pieno era bel che snaturato: una scuola doppia, con doppi, se non tripli, compiti, ambita più per necessità di custodia che per meriti pedagogici.
Quando, oggi, difendiamo il tempo pieno, il più delle volte difendiamo una simile scuola di 40 ore, faticosa e ormai impotente al riequilibrio delle disiguaglianze.

Ma questa restaurazione dell'egemonia borghese sulla scuola, con riduzione dell'insegnante a sua vestale, non sarebbe stata possibile se, parallelamente non ci fosse stato un secondo movimento, ovvero quello di un'analoga riconduzione a schemi borghesi del pensiero critico e antagonista.
Alla buona fede dell'insegnante "di sinistra", logorato da una lunga e infruttuosa guerra di posizione e dallo stallo ideologico determinato dal crollo del blocco socialista, doveva essere offerta una via di fuga che gli permettese, nel suo specifico, di ritenersi ancora dalla parte giusta.
Provvidi avvenimenti vennero in soccorso.
Berlusconi, che acquistava le indulgenze finanziando la scuola privata (ma, in realtà aveva cominciato a farlo, per primo, un governo di centro-sinista) offrì il primo argomento: la difesa della scuola pubblica.
La globalizzazione, chiamiamola ancora così, scatenando un movimento biblico di migrazione, offrì il secondo: l'opportuna "accoglienza" dei bambini degli immigrati, una necessità dettata dal buon senso che diventava opzione politica in ideale contrasto con la xenofobia volgare, e a volte brutale, della destra.
Questo secondo argomento apriva la strada all'infinita miniera delle diversità, solleticando l'insegnante progressista all'elaborazioni di programmazioni ad hoc, in funzione dell'esorcizzazione dei più vari pregiudizi.
In questo si concentrava l'esser progressista dell'insegnante, mentre l'autonomia scolastica lo trasformava in affittacamere, pronto ad aderire a qualsiasi sconclusionato "progetto" che portasse qualche euro alle casse della scuola.

Ma questo modo di "essere di sinistra" come si riflette sul suo "far scuola"?
Evidentemente, nessun riflesso potrà esserci del suo esser laico, limitandosi tale professione all'assunzione di atteggiamenti che, variamente commentati da genitori e alunni, nulla o quasi possono produrre sul piano didattico.
Ma anche la seconda questione non porta da nessuna parte. Esaurita la fase dell'accoglienza, in cui l'insegnante democratico si differenzia dal collega reazionario solo per il grado di autentica empatia che ci mette, la maggior parte degli alunni così ben accolti, in una scuola che accetta le diversità, ma non rimuove le disuguaglianze, è destinata alla trafila rinforzo/recupero/BES che annega nel senso di emarginazione e rifiuto le speranze accarezzate dall'accoglienza.
Quanto alla lotta ai pregiudizi, anche lì la produttività è ben scarsa. Da che mondo è mondo, catechismi e galatei, per quanto imparati a memoria, hanno sempre lasciato il tempo che trovavano. 
Le capacità educative di un'istituzione non risiedono nella trasmissione di un'infinità di precetti comportamentali, ma nel far acquisire un atteggiamento generale al vaglio del quale operare scelte negli accadimenti esistenziali.
Tale atteggiamento dipende quasi esclusivamente dal riconoscimento dell'autorevolezza dell'istituzione, che discende a sua volta dalla qualità del rapporto instaurato.
Nessuno si fa insegnare ad accettare gli altri da una scuola che non lo accetta.
Per tale ragione, dove più ce n'è bisogno, nei quartieri popolari e nelle periferie urbane, le parole della scuola restano lettera morta e i piccoli, italiani e stranieri - parcheggiati nei banchi degli asini -, crescono più integralisti o xenofobi, omofobi e maschilisti dei loro genitori.

Tutto da rifare, dunque, e occorre ripartire dai meccanismi di selezione - che hanno una chiara connotazione sociale - e da lì tornare a proporre il tema dell'uguaglianza come obiettivo da raggiungere.
Abolire i voti nella scuola primaria, potrebbe essere un primo passo.


giovedì 27 febbraio 2014

Dalla parte del torto

Attività opzionali. Oggi Beppe comincia male: provoca i compagni e soprattutto provoca me, ignorando ostentatamente tutte le regole. Se ne resta in piedi, al centro della classe, dichiarando tutto il suo disinteresse per le nostre attività pomeridiane e la sua intenzione a non più parteciparvi.
Capisco che il resto della classe si attende qualcosa da me e ne ha ben d'onde, ho uno stile educativo direttivo e tollero poco il casino.
Ma comprendo anche che su Beppe grava un pregiudizio socialmente condiviso. Vive, con la mamma, separata da poco, il nonno e due fratellini più piccoli alle case popolari. E' già stato bocciato una volta, per eccesso di assenze, che continuano a essere tante. Incarna insomma, assieme al suo amico/nemico e vicino di casa Nichi, le stigmate di una vita disordinata e fortunosa che turba la quieta norma borghese del paesino.
E' quindi il capro espiatorio ideale su cui scaricare tutte le tensioni del gruppo, ottenendo l'equilibrio con il minimo del sacrificio.
In questi casi il mio mestiere si fa interessante e difficile. Si deve tenere insieme il gruppo senza sacrificare l'individuo. Non puoi lasciare al lupo la pecora ribelle, né puoi lasciare il gregge per andare a cercarla.
Qui come fai, sbagli, mi dico, e cerco di guadagnare tempo.
Chiedo comunque, con voce ferma, ma senza toni irosi, a Beppe di portarmi il diario. La manovra mi serve per verificare il suo livello di opponenza e, al tempo stesso, per dare al resto della classe non l'impressione che sia intatto il principio d'autorità, ma che l'adulto non ha abdicato alle sue funzioni.
Naturalmente, se Beppe si rifiutasse, passerei un brutto quarto d'ora e non ha senso ipotizzare adesso, a freddo, come avrei reagito.
Ma mi va bene, e Beppe mi porta il diario. Questo significa che non ha intenzione di rompere, ma che ha, a modo suo, innescato un dialogo da cui si attende qualcosa.
Nell'immediato dunque, passata la buriana, la situazione si normalizzerà, ma dovrò ingegnarmi a dare una qualche risposta al disagio che Beppe esprime.
Sul diario chiedo un colloquio con la famiglia, che mi sarebbe utile, ma che con ogni probabilità non ci sarà.
Ha da passà 'a nuttata e si deve lasciar tempo alla catarsi. Invito a cominciare l'intervallo in classe, con i giochi da tavolo. Nel frattempo, Beppe, ma ormai poco convinto, continua a esternare. Qualcuno tenta la sceneggiata dello scandalo, ma lo stoppo subito: Beppe sta solo cercando di mettersi in mostra, dà ben poco fastidio e in questi casi ignorare è meglio che imbavagliare. Con molta maturità, un paio di ingenui a parte, la classe mi asseconda, si concentra sui giochi e non concede il palcoscenico al piccolo ribelle.
In breve tempo l'incendio si estingue e visto che è un bel giorno di anticipata primavera, dico ai ragazzi che possiamo andare a giocare fuori.
Se infatti non lo facessi, si sentirebbero ingiustamente puniti e nelle loro casalinghe lamentele riattizzerebbero il fastidio che già molti genitori covano nei confronti della supposta "mela marcia".
So in anticipo che Beppe, per senso di dignità, non lo vorrà fare.
Siamo una piccola scuola di paese e a quest'ora non c'è neppure il bidello, in condominio con l'attigua scuola materna. Sono quindi solo.
Decido  di rischiare, sapendo bene che in caso di un malaugurato incidente, le mie responsabilità civili e penali sarebbero gravi. Dubito, comunque, che si possa fare bene un mestiere senza assumersi dei rischi.
Beppe, che valuto non più tentato dal prendere iniziative inopportune, resta in classe, io porto fuori il gruppo e dò disposizioni affinché giochino solo nello specchio che posso controllare restando accanto alla porta d'uscita. Sto lì, con l'orecchio teso, a interpretare i rumori che provengono dall'interno e ogni tanto faccio una scappata a controllare Beppe.
Adesso che non deve più sostenere l'immagine di sé di fronte ai compagni, Beppe è disponibile al dialogo.
Gli chiedo di scrivermi una lettera per spiegarmi che cosa è successo. Acconsente e mentre lui è impegnato in tale attività, posso dedicarmi con meno ansie alla sorveglianza dei suoi compagni. 
Terminata la lettera, è ormai assolutamente malleabile e ho buon gioco, dopo averlo rassicurato che potrà stare per i fatti suoi, a farlo riunire al gruppo.

Così mi scrive Beppe:

.
Beppe, dunque, la mattina si sveglia incazzato e bestemmiante, esattamente come capita a me. Ma io ho 62 anni e lui solo 10. Qui sta il problema.
Stamattina, all'origine della rabbia, la sorellina, che lo ha svegliato anzitempo, ma qui scatta il principio di imputazione, per cui si attribuiscono a fattori esogeni lo scatenamento di pulsioni endogene.
Infine, di tutte le regole della scuola che rifiuta, gli viene in mente solo il divieto di utilizzare i distributori automatici di bevande, cioè l'inibizione a comportamenti adulti.
E' dunque di sicuro un bambino derubato, almeno parzialmente, dell'infanzia e costretto a crescere, ma in modo difforme, troppo velocemente.
Cerco di sondarlo con qualche domanda, ne ottengo racconti di abbandono davvero poco credibili, ma dietro ai quali, un vissuto abbandonitico c'è sul serio.
Probabilmente Beppe è stato costretto a occuparsi troppo dei suoi fratelli minori e quindi sollecitato a una precoce assunzione di ruoli adulti.
I tre fratellini non sono abbandonati, ma certamente lasciati un po' a sé stessi e non adeguatamente sorvegliati e seguiti. Qualche volta, per qualche ora, saranno per davvero lasciati soli in casa o giocheranno senza sorveglianza nel parchetto. Si sopravvaluta, dunque,  la loro autonomia e soprattutto il senso di responsabilità del più grandicello.

Ce ne sarebbe abbastanza, anche non dando credito ai racconti di Beppe, per una segnalazione ai servizi sociali, che non farò.
Non la farò perchè credo che quando Gianni Bollea dice che le madri non sbagliano mai voglia dire che una mamma che fa tutto quello che riesce a fare, non di più e non di meno, è sempre una buona mamma. Non esistono standard da rispettare e il codice penale, rettamente interpretato, dovrebbe associare ogni precisa mancanza a una deliberata volontà di deprivare, non a un'eventuale inadeguatezza culturale. Se no, è un codice penale di classe.
Non lo farò perché sono contrario a ogni eugenetica e sono convinto che anche chi è povero, ignorante, tribolato e con difficoltà esistenziali abbia il diritto di tentare di farsi una vita completa, di fare figli e di crescerli come riesce.
Non lo farò, soprattutto perché contesto a una classe sociale geograficamente collocata, la pretesa di essere la parola fine della storia e di imporre le sue norme come verità indubitabili e universali.
Non lo farò, innoltre, perché credo che fare una scuola in difesa, preoccupata solo di non cercarsi guai, significa disertare dalla funzione democratica della scuola. In una simile scuola, i genitori dei vari Beppe si sentono giudicati, rifiutati, emarginati, minacciati dell'intervento espropriante dell'assistenza sociale. Non vengono alle riunioni e se ci vengono non lo fanno per lamentarsi della nostra sorda indifferenza alle loro difficoltà, ma per attribuire l'origine dei loro guai a qualcun'altro, magari agli extracomunitari.
Fanno come Beppe che dà la colpa alla sorellina per il fatto di sentirsi solo, perché anche noi li abbiamo lasciati soli.
Non lo farò, infine, perché si usa dire che si applica la legge per non saper né leggere né scrivere. Ma chi a leggere e scrivere insegna, questo proverbio non può competere.

La mia giornata, prolungata da queste riflessioni, è finita. Anche oggi mi sono guadagnato lo stipendio. Ho contravvenuto ad almeno un paio di leggi e regolamenti. Sono soddisfatto.. 




lunedì 27 gennaio 2014

Per Grazia

[in occasione dell'intitolazione dell'aula di scienze della scuola Di Dio a Grazia Rabellotti]

Cara Grazia,
certe volte sembra ancora ieri quel 1983 in cui un bel gruppetto di giovani insegnanti, freschi di concorso, entrarono nella scuola con una gran voglia di fare, di disfare e di cambiare.
Sono passati trent'anni e molto, forse tutto è cambiato, anche se, nel paese del gattopardo, spesso tutto cambia affinché nulla cambi.
Certamente siamo cambiati noi, e non solo fisicamente, come si può ben vedere,  ma soprattutto nello spirito.
Difficile riconoscere in noi i ragazzi entusiasti, speranzosi e ribelli che siamo stati. Non vogliamo o non possiamo più esserlo e qualcuno si è perfino pentito di esserlo stato. 
Fatto sta che ci sentiamo spesso stanchi, delusi, rassegnati, in tal modo assomigliando – e molto – ai vecchi professori brontoloni che volevamo contestare agli inizi della nostra carriera.
Tu, Grazia, che insegnavi scienze, ci spiegheresti che ciò che ci capita è insito nei meccanismi evolutivi – ontogenesi e filogenesi – per cui, gradualmente, dal protagonismo egocentrico dell'infante, si giunge , nella maturità, all'agnizione del ruolo effettivo di comparsa che spetta ai più.
È senz'altro vero, ma Bettina, la tua fedelissima compagna di team, potrebbe aggiungere che nell'ambito delle scienze umane, agiscono però la volontà e la libertà che possono alterare il ferreo determinismo che regna nelle scienze fisiche e matematiche.
Mi piace pensare che questo discorso, o qualcosa di simile, lo abbiate fatto davvero, in sede di programmazione, per mettervi d'accordo su come affrontare con i vostri alunni, nell'ottica dell'unità del sapere, le difficoltà cognitive che deriverebbero, in una separazione rigida degli ambiti disciplinari, da un'apparente dottrina della doppia verità.
Ma se lo avete fatto, lo avete fatto certamente nel secolo scorso. Quando ancora le programmazioni si facevano come si deve. E dico questo, per tornare alla nostra attuale stanchezza. 
Abbiamo, naturalmente – dalla Falcucci alla Gelmini – delle ottime scuse.
Ma come insegnanti dovremmo diffidare del principio di imputazione, cioè di quel fenomeno, familiare alle colleghe dell'infanzia, per cui il bambino piccolo picchia lo scivolo cattivo che gli ha fatto male. È un principio che persiste, mutatis mutandis, nell'età adulta, quello – per intenderci – per cui le nostre famiglie borghesi vorrebbero risolvere i problemi di una classe difficile, eliminando le “mele marce” o quello per cui le nostre famiglie sottoproletarie addebitano a qualcun altro – gli extracomunitari o le influenze astrali – le difficoltà di organizzare la loro esistenza.
Agli uni e agli altri cerchiamo di spiegare che, nella complessità dei fatti sociali è buona cosa cercare, di assumerci le nostre proprie responsabilità, prima di andare a cercare quelle degli altri. Cerchiamo di attenerci anche noi a questa buona regola.
E dicevamo, delle programmazioni. 
Io credo che vogliate darmi atto che, negli ultimi tempi, nella stragrande maggioranza dei casi, le riunioni di programmazione assomigliano sempre meno al confronto di un team e sempre di più al briefing di uno studio associato, dove ogni professionista formalizza il suo parcellizzato contributo, con scarsa osmosi reciproca.
Ce ne accorgiamo, e pensiamo che sia un effetto di quella stanchezza e di quella delusione di cui si diceva all'inizio.
E se, invece, ne fosse la causa?
Ancora Grazia, che insegnava il metodo scientifico ai suoi bambini, potrebbe venirci in soccorso e dirci: Ehi, ragazzi! Sapete cos'è successo? È successo che prima, come Galileo nel gran libro della natura, anche noi sapevamo leggere, nella realtà delle nostre classi, le ansie, le speranze e le aspirazioni della più vasta realtà sociale, cercavamo di interpretare i dati e di costruirci sopra un coerente progetto didattico e pedagogico. Adesso, invece, più Bellarmino che Galileo, vogliamo vederci riflessa, a tutti i costi, la verità che apprendiamo dalla televisione, dai giornali, da internet. Alla nostra analisi, abbiamo sostituito la sintesi altrui. Ecco cos'è successo.
Eh già, Grazia, il metodo scientifico: osservazione, ipotesi, verifica. È così che si fa una buona programmazione. È così che le nozioni, temperate alla fiamma della realtà concreta diventano carne viva, stimolo, problema da discutere. Viceversa, ridotte ad astratte formulazioni, sono arido e ostico nozionismo. E i bambini vanno male a scuola, e noi siamo stanchi e delusi e ci consoliamo dando la colpa al governo, alla globalizzazione, alla latitanza dei padri, alle mezze stagioni che non ci sono più.
Grazia alla collegialità ci credeva. Ricordo interminabili, ma appassionate, programmazioni di circolo. Lei ascoltava pazientemente torrenziali oratori, poi – quasi timidamente, o forse solo con molta educazione, chiedeva la parola e con le sue osservazioni, sempre molto pertinenti e meditate, talvolta incrinava quelle che ormai sembravano verità assodate. Allora, la discussione ripartiva da zero. E si faceva una buona scuola.
Per questo vorrei che, almeno quel gruppetto che, dopo il concorso, venne a insediarsi, più o meno stabilmente, in quello che allora si chiamava sesto circolo, prendesse oggi un impegno, affinché il ricordo di Grazia non sia solo di circostanza, ma diventi quotidiana testimonianza del suo modo sereno di concepire e fare scuola.
Il suo ricordo ci sia di stimolo per rinvigorire le nostre radici e rinnovare l'impegno che ci siamo assunti allora, in modo che, un giorno si dica; be', quei ragazzi non sono riusciti a cambiare troppo il mondo, ma non hanno permesso al mondo di cambiare troppo loro.
Sei del nostro gruppo, Grazia, e qualcosa di te resta qui con noi, a darci una mano.











sabato 4 gennaio 2014

CONTRIBUTO A UNA CRITICA ALLE INDICAZIONI NAZIONALI PER IL CURRICOLO

Da molto tempo nelle scuole, il collegio docenti, ormai ridotto a disciplinata chambre octroyée dell'autonomia, non discute più le disposizioni imposte, considerandole neutrali procedure tecniche. In realtà esse sono, quasi sempre, atti di indirizzo politico che intervengono sulle funzioni della scuola e degli insegnanti. Sono interventi progressivi e quasi indolori che tendono gradualmente a snaturare tali funzioni. Ogni passo è la premessa, e la legittimazione di quello successivo. Del guaio ce ne accorgeremo a cose fatte. 
Vale perciò la pena di sottoporre ad analisi i documenti ministeriali, per metterne in luce una filosofia, farcita di senso comune, che spesso contrabbanda affermazioni apodittiche spacciate per ovvietà incontestabili.
In molte scuole ci sono state riunioni per applicare le Indicazioni per il curricolo della scuola primaria, quasi in nessuna si sono discusse le premesse delle indicazioni che, accanto a formulazioni accettabili, danno per scontato un quadro concettuale generale che non è, come si pretenderebbe, universalmente accettato.
Di seguito, qualche critica al primo paragrafo: la scuola nel nuovo scenario.

1. L'equilibrio e i suoi contrari. Probabilità e imprevisti
Il documento si apre con una doppia mezza bugia. Al concetto positivo di stabilità si oppongono, come falsi contrari, due concetti altrettanto positivi o neutri: cambiamento e discontinuità. Il trucco è evidente, il contrario di stabilità è, infatti instabilità, come può verificare chiunque, divertendosi ad applicare la coppia degli aggettivi derivati a sostantivi quali: equilibrio, salute, reddito, condizioni del tempo, ...

La bugia si rafforza successivamente, affermando che tale cambiamento, come nel gioco del Monopoli è si, moltiplicatore di rischio, ma anche di opportunità.

Qui non si fa che ripetere lo slogan con cui si è voluto far digerire la pillola amara dei cambiamenti in oggetto. Ma sappiamo che non è così: mentre i talenti, come Edith Piaf o Gianni Riviera, emergevano anche nella vecchia società stabile, tutti gli indici disponibili ci invitano a concludere che in questa sedicente società delle opportunità, la mobilità sociale è a zero e i posizionamenti di status si riproducono identici da una generazione all'altra. 
Notiamo poi che gli asseriti cambiamenti vengono presentati come eventi cosmici prodotti da cause naturali e non si fa cenno sulla logica del profitto – non più mediata da considerazioni morali o intellettuali – che li ha, in realtà, determinati.

Questo incipit ci ingenera il sospetto di trovarci alle prese di un ulteriore passo avanti nel processo già in atto di subordinazione delle funzioni della scuola a tale poco nobile logica. 

Excursus 1, probabilità e imprevisti: confrontate le compatibilità delle affermazioni del primo capoverso con questi dati.

2. Nascono già imparati
Nel secondo capoverso si ribadisce il ritornello mediatico, abituale e indiscusso, che ha accompagnato la rivoluzione informatica, fingendo di ignorare l'utilizzo sostanzialmente ludico che ha caratterizzato la diffusione dei nuovi strumenti.


Rispetto all'enorme disponibilità di informazioni e competenze acquisibili altrove, alla scuola resterebbe il ruolo di sistematizzarle, gerarchizzarle, metterle in relazione.
In realtà non è affatto così: non è il mezzo a determinare efficacemente il proprio uso. I libri sono inutili a casa di un analfabeta. 
L'accesso alle informazioni garantito dai nuovi media non è di per sé né istruttivo, né educativo. La fruizione è filtrata attraverso gli strumenti culturali propri del contesto di cui il bambino fa parte e pseudoscienza, irrazionalismo, deformazioni e visioni anguste del mondo si diffondono sempre di più, assieme ai più banali errori di interpretazione, alle bufale, alle leggende metropolitane. Le informazioni sono tante, ma non sempre le si sa scegliere e comprendere e una nuova forma di analfabetismo avanza. Sempre più spesso i nuovi mezzi si prestano a un uso devastante sul piano morale e psicologico.

Non è dunque la scuola – come si vorrebbe – a dover assumere un ruolo ancillare nei confronti dei nuovi media, ma sono semmai questi che –  tornando ad essere ciò che sono, semplici strumenti – devono essere subordinati alle esigenze didattiche e pedagogiche della scuola. 

Excursus 2, competenze specifiche: riflettete sulle affermazioni del secondo capoverso, confrontandole con questi echi di cronaca.

3. L'Edipo orfano
Qui sembra ribadirsi il concetto di un'abdicazione alla funzione educativa da parte delle delle famiglie. Curioso come nessuno noti che questa percezione sia rimbalzata, da una generazione all'altra sin dai tempi più remoti. Ai miei tempi … lo hanno detto i nostri padri, i nonni e i nonni dei nonni. La percezione di irrimediabile decadenza non fa che registrare la normale e necessaria evoluzione di norme e rapporti. In realtà, nel passare dal voi al tu, l'autorità paterna non si è necessariamente dissolta.
Del resto, auctoritas deriva da auctor, e come tale si differenziava dalla potestas e forse non è un caso che, nei conflitti educativi che oppongono talvolta, scuola e famiglia, questa lamenti proprio una supposta lesione dei suoi diritti d'autore.
Probabilmente e qui che si deve cercare la ragione del particolare vuoto educativo che lamentiamo: non latitanza della famiglia, come frettolosamente si suppone, ma estrema parcellizzazione di stili e precetti educativi, perfettamente connaturata a una società che è stata voluta fortemente individualista.
Nell'affermare che questa crisi educativa sia conseguenza del nichilismo nel quale precipita la ragione quando si distacca dalle sue fonti trascendenti, il filosofo cattolico Augusto Del Noce non fa riferimento ad un'immaginaria età dell'oro, ma a una concreta realtà storica di lunga durata. 
Nel 900, l'individuo si determinava attraverso l'appartenenza sociale, religiosa, politica, cioè a un reticolo di insiemi collettivi che determinavano, anche, sistemi valoriali. Dall'accettazione, o rifiuto, dei valori predominanti (che erano trascendentalmente fondati) derivavano, quindi, norme coerenti e non già anomia.
Viceversa, oggi, anche quando il soggetto, rivelando smarrimento e solitudine nella nuda condizione di individuo, cerca di essere riconosciuto come qualcos'altro, il riferimento è a insiemi (etnia, genere, orientamento sessuale) onnicompressivi sul piano sociale, religioso e politico, l'appartenenza ai quali non dà coordinate etiche, ma anzi, genera relativismo.
Diventa così difficile, per la scuola, proporre orientamenti generali in base ai quali affrontare i casi particolari.
La scuola, sempre di più sembra impegnata nella fatica di Sisifo di fornire risposte alle emergenze del momento, in continue campagne suggerite dai casi di cronaca e dalla rilevanza mediatica che assumono.

4. macrocosmo e microcosmo

Curiosamente, la complessità postmoderna trova come strumento esplicativo il concetto premoderno di microcosmo.
La globalizzazione non è un modello concreto a cui le singole realtà si adeguano, ma un'astrazione che mette insieme sbiadite analogie degli effetti, molto diversi tra loro, che la libera circolazione di capitali, merci e forza lavoro ha prodotto sulle pregresse strutture economiche e sociali di ogni singola realtà. 
Per restare a noi, il nord è ancora differente dal centro e dal sud, la città dalla campagna, le metropoli dai paesi. Nella stessa città c'è differenza tra centro e periferia, tra quartieri residenziali e ghetti. Se i problemi possono, qualche volta, assomigliarsi, il modo di affrontarli e le soluzioni adottate differiscono fortemente.
Le indicazioni si confermano mosse da un impianto filosofico debole e ideologico, si finge di analizzare i fatti che in realtà vengono deformati in un ottica di parte che si spaccia per oggettiva.

È dunque doveroso che sia il sospetto a guidarci nell'ermeneutica del passo successivo.

5, scuola e costituzione
Nel combinare a piacere gli articoli della Costituzione, qui si delinea una nuova funzione della scuola, che passa dalla formazione dell'individuo a quella di addestramento di lavoratori. L'accenno alle formazioni sociali è chiarificatore, allude a padroni e padroncini, a sindacati interessati al business della formazione gestita da enti bilaterali e alle amministrazioni locali, di vario grado, che su tutto ciò, in concerto con l'UE, lucrano.
Per arrivarci, si gioca in modo infame con le parole. 
A proposito dell'uguaglianza, ci si dimentica della necessità di assicurare un'uguaglianza delle condizioni di partenza, giacché essa viene messa subito in relazione con il rispetto delle differenze e delle identità di ciascuno. Ma le differenze e le identità che si vogliono rispettare non sono, come pensiamo noi, quelle culturali, ma quelle che si pretendono naturali.
Infatti il passo prosegue richiamando l'attenzione non solo sulle disabilità, ma anche su ogni fragilità. Non c'è nessun accenno sul fatto che queste ultime possano avere un'origine sociale e possano quindi essere rimosse o sensibilmente ridotte.

In pratica qui si dice che ci sono degli inferiori, la cui libertà e uguaglianza consiste nel poter fare un lavoro alla loro portata e che compito della scuola è certificare tale inferiorità.
Sulle generiche affermazioni che vengono dopo, si può anche, proprio in virtù dell'assoluta genericità, convenire, ma non deve sfuggire che in esse non si delinea mai l'idea che si stia formando delle donne e degli uomini completi, ma solo dei futuri lavoratori che pertanto vanno forniti esclusivamente di competenze e possono fare a meno del senso critico.

Ciò porta a una conclusione con cui occorre radicalmente dissentire:
Non bisogna farsi trarre in inganno, qui non si parla di percorsi didattici individualizzati, cioè di percorsi rispettosi dei tempi di apprendimento di ciascuno, ma di individualizzazione dei contenuti dell'apprendimento.
Si ribadisce, cioè, la necessità di una selezione precoce che li commisuri alle supposte capacità dell'individuo. Per alcuni si potrà rinunciare a qualche obiettivo.

La vecchia idee delle classi differenziali viene applicata all'intero sistema scolastico.
Quindi, mentre da molte parti si afferma che l'infanzia duri di più e la maturazione degli individui avvenga più tardi, si vorrebbe legare l'intera formazione, cioè il destino, di ognuno ad inclinazioni manifestate in età davvero acerba.
Eppure proprio la premessa, che sottolineava l'oggettiva impossibilità di un inseguimento della realtà sul piano delle nozioni, avrebbe dovuto far inclinare verso una scuola orientata a formare più metacapacità che capacità, cioè a proporre una Bildung o Paideia funzionale a fornire a tutti, tutti gli elementi per operare libere scelte. 

Sebbene qualcosa di simile venga affermato poco più oltre, l'impianto culturale della premessa ci induce a prenderle per affermazioni di rito, poco congrue con il senso generale del discorso, al quale sembra culturalmente estranea anche la citazione finale della Costituzione.

excursus 3, qual'è la scuola democratica? confronto tra due immagini.