lunedì 25 giugno 2012

26 giugno 1967


Poco prima di essere trasferito dalla parrocchia di San Donato a Calenzano – un centro operaio tessile alle porte di Firenze – nella sperduta Barbiana – un gruppo di case sparse sul monte Giovi, nel Mugello – don Lorenzo Milani scrisse una lettera appassionata alla madre: «Ho la superba convinzione che le cariche di esplosivo che ci ho ammonticchiato in questi cinque anni non smetteranno di scoppiettare per almeno 50 anni sotto il sedere dei miei vincitori».
Parroco di 40 anime Era il 1954, lo scontro Dc-Pci era aspro, il decreto con cui il Sant’Uffizio nel ’49 aveva scomunicato i comunisti restava pienamente in vigore, e quel giovane prete – che comunista non era, ma aveva più volte confessato come errore il voto alla Dc il 18 aprile del 1948 («è il 18 aprile che ha guastato tutto, è stato il vincere la mia grande sconfitta», scrive a Pipetta, un giovane comunista calenzanese) – non allineato agli ordini della Curia, di piazza del Gesù e della Confindustria andava reso inoffensivo: esiliato sui monti, priore di una chiesa di cui era già stata decisa la chiusura, «parroco di 40 anime», come disse egli stesso.
Eppure, nonostante il confino imposto dall’arcivescovo di Firenze Ermenegildo Florit, la «superba convinzione» di Milani pare essersi realizzata: le «cariche di esplosivo» piazzate «sotto il sedere» dei vincitori, a 45 anni dalla sua morte (il 26 giugno 1967), continuano a «scoppiettare». Non hanno avuto la forza d’urto in grado di sovvertire il sistema, ma alcune intuizioni, per lo più inattuate, e molte denunce, inascoltate, conservano intatta la loro dirompenza. Per cui, se è vero che il valore di una vicenda si misura anche con la capacità di anticipare i tempi della storia, allora quella di Lorenzo Milani resta un’esperienza “profetica” che ancora parla alla società, alla politica e alla Chiesa di oggi.
L’ospedale che cura i sani La scuola rimane l’ambito principale, ma non l’unico. Insieme ai suoi “ragazzi” ne denunciò il classismo in Lettera a una professoressa e la sperimentò come prassi liberatoria, sia nella scuola popolare serale per gli operai di Calenzano, 20 anni prima delle “150 ore” conquistate con lo Statuto dei lavoratori del ’70, sia nella scuola di Barbiana per i piccoli montanari del monte Giovi. I ministri, sia politici che tecnici, che negli anni si sono avvicendati a viale Trastevere, con qualche eccezione, si sono mostrati devotissimi all’idea milaniana di una “scuola per tutti” – il 26 giugno è in programma l’ennesimo convegno al ministero: Salire a Barbiana 45 anni dopo – e contemporaneamente abilissimi ad ignorarla nella prassi. Magari immaginando una didattica multimediale 2.0 in istituti con classi di 30-35 alunni o inventando premi speciali a pochi studenti apparentemente meritevoli – l’ultima idea di Profumo -, mentre si tagliano risorse, maestre, prof, insegnanti di sostegno e ore di lezione per tutti, così da trasformare la scuola in «un ospedale che cura i sani e respinge i malati», «strumento di differenziazione» piuttosto che ascensore sociale, si legge in Lettera a una professoressa.
E «se le cose non vanno, sarà perché il bambino non è tagliato per gli studi», anche in prima elementare, come i 5 alunni bocciati nella scuola elementare di Pontremoli, pochi giorni fa. È dimenticata la lingua, «la lingua che fa eguali», e le lingue che, in un’ottica “internazionalista”, consentono agli oppressi di tutto il mondo di unirsi: a Barbiana studiamo «più lingue possibile, perché al mondo non ci siamo soltanto noi. Vorremmo che tutti i poveri del mondo studiassero lingue per potersi intendere e organizzare fra loro. Così non ci sarebbero più oppressori, né patrie, né guerre». Milani mandava all’estero i giovanissimi studenti del Mugello, bambine comprese, vincendo paure e resistenze delle famiglie: ne è testimonianza vivente Francesco Gesualdi, ex allievo di Barbiana, a 15 anni spedito in Nord Africa ad imparare l’arabo, oggi infaticabile animatore del Centro nuovo modello di sviluppo per i diritti dei popoli del sud del mondo.
Ci sono anche i beni comuni Non c’è solo la scuola. Ci sono anche i beni comuni: acqua e casa. È poco nota, ma di grande significato, la lotta fatta insieme ai montanari barbianesi per la costruzione di un acquedotto che avrebbe dovuto portare l’acqua a nove famiglie. Una battaglia persa, perché un proprietario terriero rifiutò di concedere l’uso di una sorgente inutilizzata che si trovava nel suo campo, mandando così all’aria, scrive Milani in una lettera pubblicata nel ’55 dal Giornale del Mattino di Firenze (allora diretto da Ettore Bernabei) «le fatiche dei 556 costituenti», «la sovranità dei loro 28 milioni di elettori e tanti morti della Resistenza», madre della Costituzione repubblicana. Di chi è la colpa? Della «idolatria del diritto di proprietà». Quale la soluzione? Una norma semplice, «in cui sia detto che l’acqua è di tutti».
E la casa, col piano Ina-Casa di Fanfani che avrebbe dovuto assicurare un tetto ai lavoratori, ma che venne realizzato solo in minima parte, mentre continuavano gli sgomberi di chi occupava le ville di ricchi borghesi che di abitazioni ne avevano due o tre, tenute vuote «per 11 mesi all’anno». «La proprietà ha due funzioni: una sociale e una individuale», e «quella sociale deve passare innanzi a quella individuale ogni volta che son violati i diritti dell’uomo», scrive Milani nel ’50 su Adesso, il giornale di don Mazzolari. Queste parole «domenica le urlerò forte. Vedrete, tutti i cristiani saranno con voi. Sarà un plebiscito. Faremo siepe intorno alla villa. Nessuno vi butterà fuori». Ma non succederà nulla, noterà Milani, che ripeterà: «Mi vergogno del 18 aprile».
La guerra e la storia, attraversate dalla responsabilità individuale – «su una parete della nostra scuola c’è scritto grande: I care», ovvero «me ne importa, mi sta a cuore. È il contrario esatto del motto fascista “Me ne frego”» -, altri temi forti dell’esperienza di Milani: la difesa dell’articolo 11 della Costituzione, l’obiezione di coscienza agli ordini ingiusti soprattutto se militari («l’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni»), l’opposizione alla guerra e alla guerra preventiva, 40 anni prima di Bush, perché «in lingua italiana lo sparare prima si chiama aggressione e non difesa».
E una rilettura della storia che prende le distanze da ogni suo “uso pubblico” nazionalista e patriottardo, passando in rassegna le italiche guerre, tutte «di aggressione»: da quelle coloniali di Crispi e Giolitti, al primo conflitto mondiale, fino a quelle fasciste di Mussolini, passando per il generale Bava Beccaris, decorato da re Umberto, che nel 1898 prese a cannonate i mendicanti «solo perché i ricchi (allora come oggi) esigevano il privilegio di non pagare le tasse».
Ma «c’è stata anche una guerra giusta (se guerra giusta esiste). L’unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana». Quindi, scrive ai cappellani militari che avevano chiamato «vili» gli obiettori di coscienza, se voi avete diritto «di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto».
Un povero sacerdote bianco Non è stato un “cattolico del dissenso” Milani – il ’68 era ancora lontano -, ma un “ribelle obbediente”, forse proprio per questo guardato con ancora maggiore ostilità dall’istituzione ecclesiastica a cui il prete fiorentino rimproverava di aver perso di vista il Vangelo per inseguire il potere: «Non abbiamo odiato i poveri come la storia dirà di noi. Abbiamo solo dormito. È nel dormiveglia che abbiamo fornicato col liberalismo di De Gasperi, coi Congressi eucaristici di Franco. Ci pareva che la loro prudenza ci potesse salvare», si legge nella visionaria Lettera dall’oltretomba di un «povero sacerdote bianco della fine del II millennio» ai «missionari cinesi» che nel futuro arriveranno in una Europa senza più preti, uccisi dai poveri, pagina conclusiva di Esperienze pastorali, il volume di Milani giudicato «inopportuno» dal Sant’Uffizio nel ’58 e non ancora riabilitato. «Insegnando ai piccoli catecumeni bianchi la storia del lontano 2000 non parlate loro dunque del nostro martirio. Dite loro solo che siamo morti e che ne ringrazino Dio. Troppe estranee cause con quella del Cristo abbiamo mescolato».
Luca Kocci, il manifesto, 23 giugno 2012

mercoledì 20 giugno 2012

ridateci i somari degli anni '50


L'alunno di terza elementare della scuola Giovanni Pascoli di Ca' Tron di Roncade (TV) che ha scritto questo tema, non poteva, in quel 1954, essere diagnosticato come DSA.
L'analisi degli errori mette in primo piano errori fonologici (insinta, grassia, maridada) e fonetici (doppie) di evidente derivazione dialettale,  così come dovrebbe avere la stessa origine 'ndare per andare e par in luogo di per.
Anche l'errore morfo-sintattico per cui si utilizza l'ausiliare essere in luogo di avere, corrisponde all'uso dialettale.
Le fusioni illegali (Catron, lamadona, demonteberico, fatostà, laltra) sono invece errori linguistici che, così come l'omissione dell'h in avere, si spiegano con una prima alfabetizzazione lacunosa, in un contesto familiare deprivato e in una fase storica in cui la scuola delega molti compiti didattici alle famiglie.
Non c'è dubbio che, come osserva uno degli autori del testo da cui abbiamo tratto l'esempio1, oggi a questo bambino verrebbe diagnosticata una disortografia evolutiva e/o disturbo dell'espressione scritta.
Aggiungiamo che in quell'epoca, e in quell'area geografica, tale disturbo avrebbe interessato non meno del 70% della popolazione scolastica.
Non c'era, evidentemente, nessuna epidemia in atto, perché l'eziologia degli errori, come si è visto, era sociale e non neuropsichiatrica.
Se oggi l'incidenza diagnostica si è ridotta, lo si deve al progresso sociale e non a quello della neuropsichiatria infantile.
Resta da vedere se tutte le diagnosi che vengono certificate oggi attengano solo a bambini disturbati sul piano np, oppure se non ci sia un residuo (nuove migrazioni, sacche di sofferenza sociale) in cui il deficit osservabile potrebbe spiegarsi diversamente. Da questo punto di vista l'anamnesi familiare dovrebbe essere discriminante.
Restiamo però sull'esempio iniziale per fare un'altra considerazione. Questo è il testo depurato degli errori ortografici, nessun intervento è stato fatto né sul piano sintattico, né su quello lessicale.
Domenica siamo andati alla Madonna del Monte Berico a chiedere la grazia per mia sorella che è maritata da cinque anni e non ha ancora bambini.
Siamo andati, abbiamo pregato, poi abbiamo mangiato, poi siamo tornati a casa.
O che abbiamo pregato male o che non ci siamo capiti con la Madonna, fatto sta che è rimasta incinta l'altra sorella che non è neppure sposata.
L'organizzazione del pensiero e la sua espressione non fanno una grinza, il racconto fila. agile e spigliato, dall'inizio alla fine.
Quanto al contenuto, delle due l'una: o l'ironia è voluta, e allora siamo alle prese con un autentico genio, o è inconsapevole, in questo caso ci troviamo di fronte a una rappresentazione realista della devozione popolare, degna di un buon giornalista.
In ogni caso un livello letterario impensabile in una terza frequentata dai pretesi "bambini informati" di oggi. 
Solo la barriera ortografica separa questa pagina dai gradi ottimali di scrittura,  e nella scuola degli anni '70 la valutazione sarebbe stata centrata proprio su questo aspetto, senza però trascurare un lavoro di riduzione del danno sul piano ortografico.
Nella scuola di oggi, da un lato ben raramente un DSA, o supposto tale, ci offre scampoli letterari a questo livello, dall'altro una comoda certificazione - senza spese aggiuntive per il governo - assolvendo in partenza bambini, mamme e maestri, disincentiva lo sforzo per la riduzione del danno, che potrebbe essere addirittura considerato un sadico accanimento terapeutico. 
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1C. Vio, P. E. Tressoldi, G. Lopresti, Diagnosi dei disturbi specifici dell'apprendimento scolastico, Trento, 2012, pag. 95.

domenica 10 giugno 2012

più che miopi



Un recente studio dell'OCSE ci conferma quanto, a lume di naso, ci sembrava già di sapere, e cioè che nel nostro paese la riuscita scolastica è strettamente correlata alla condizione socioeconomica della famiglia dell'alunno.
Più precisamente condividiamo il poco nobile primato in questo campo con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, paesi in cui, sia detto per inciso, la privatizzazione dell'istruzione universitaria pone ulteriori, e direi insormontabili, ostacoli all'accesso ai più alti livelli di formazione a chi proviene da classi svantaggiateÈ evidente la simpatia che il nostro attuale governo di tirapiedi delle aristocrazie finanziarie ha per quel modello d'istruzione.
La prima denuncia, con impatto di massa, di questo stato di cose risale, come tutti fingiamo di ricordare, alla Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani, era il 1967.
Da allora, qualche passo nella direzione giusta era stato fatto e un percorso di ricerche sul campo (Mario Lodi, Albino Bernardini, ...) aveva delineato un abbozzo di nuova scuola che trovò accoglienza istituzionale nell'impostazione di fondo degli ambiziosi Nuovi Programmi della scuola elementare (1985).
Ma non era trascorso neppure un quinquennio dal loro varo, che i nuovi programmi furono messi in forse dalla pretesa costatazione, nei fatti, di una loro presunta inadeguatezza alle necessità di una società in rapida trasformazione, che richiedeva differenti strumenti di accesso e interpretazione a un volume globale di conoscenze che, dopo aver atteso un secolo per raddoppiarsi, si era successivamente raddoppiato in un cinquantennio, poi in un venticinquennio, per attestarsi, infine, su un ritmo di raddoppio decennale.
Il dato, andando a ben vedere, era falso, ma anche preso per vero avrebbe dovuto indurre a proseguire sulla strada intrapresa, che, pur con limiti di impostazione illuministica, aveva di mira più l'acquisizione di strumenti critici, che di nozioni.
Nel frattempo, l'imporsi di una concezione postmoderna aveva portato alla damnatio memoriae di ogni strumento che, a torto o a ragione, poteva essere bollato come ideologico, e nella nuova convinzione che non esistessero fatti, ma solo interpretazioni, non ci si avvide, forse, che a prevalere erano in definitiva le interpretazioni di chi disponeva di un adeguato apparato di propaganda.
Ci fu dunque un rapido spostamento dall'asse affettivo-assiologico a quello cognitivo-istruttivo, e a Freinet si preferì Bruner.
Il fatto che questa evoluzione del modo di pensare la scuola trottasse di pari passo con la riscoperta dell'individualismo liberista dello strombazzato edonismo reaganiano, non insospettì quasi nessuno, anzi, le avanguardie, timorose di farsi sorpassare, si impadronirono lestamente della nuova parola d'ordine e anche l'MCE seguì la corrente.
Nelle successive semplificazioni, tornarono, come si disse, necessariamente, i compiti a casa e morì il tempo pieno, passando da modello didattico alternativo, a puro e semplice tempo-scuola opzionabile, destinato - prevalentemente - ai coatti.
A perfezionare il tutto ci pensò, nel 1997, Luigi Berlinguer, con la sua riforma che si proponeva un superamento della tradizionale dicotomia tra cultura e professionalità della scuola italiana.
Dietro l'apparente formulazione democratica si nascondeva un'operazione che invertiva il senso di marcia del riformismo scolastico.
Se nel 1962, un grande passo avanti era stato fatto con l'abolizione della scuola di avviamento al lavoro e l'istituzione di una scuola media unica, adesso si andava in senso contrario, professionalizzando gran parte della scuola secondaria.
In quei tempi postideologici si era diffusa la sensazione che certi organismi internazionali fossero, non già organizzazioni al diretto servizio del grande capitale internazionale, ma benefiche istituzioni super partes forgiate sul modello della Croce Rossa. In tale contesto, Berlinguer si fece dettare la sua riforma proprio dall'OCSE.
Non occorre una gran scienza per comprendere che la scelta era sbagliata: proprio la constatazione della velocità di incremento delle conoscenze sconsiglia l'inutile inseguimento delle nozioni, una gara che la tartaruga è destinata a perdere contro l'imprendibile lepre.
Meglio, invece, sviluppare le capacità di accedere ai compendi di dati, di saperli esplorare, di sapervi cercare le nozioni, di gerarchizzarle e intersecarle. In poche parole di sviluppare le capacità di analisi e sintesi e le metodologie di base.
Ne deriva quindi, che andava ampliato proprio il periodo di formazione culturale generale, uguale per tutti, e ridotto al minimo lo stadio di formazione professionale, che oltre tutto insegna ai lavoratori di domani i volatili modi di produzione dell'oggi.
Si era dunque sbagliata l'OCSE, suggerendo quel modello d'istruzione?
L'OCSE aveva raccontato balle, ma non si era sbagliata, volendo ottenere proprio ciò che abbiamo sotto gli occhi: sottocupazione, precarizzazione, dequalificazione del lavoro. L'obiettivo del grande capitale è riprodurre nell'ambito dell'istruzione la forbice della disuguaglianza sociale: così come si sta cancellando la classe media dal panorama sociale, in quello dell'istruzione va eliminata ogni categoria intermedia tra il semianalfabetismo e la formazione d'eccellenza.
A compiere il disegno, la soppressione del valore legale del titolo di studio e la conseguente consegna del monopolio dell'istruzione superiore a elitarie scuole private, inaccessibili ai più.
Al di là di quanto affermato, si vuol ottenere, con successivi abbassamenti degli standard, una scuola che prepari a mansioni esecutive, generiche, intercambiabili: il lavoratore, in tal modo, identico al proprio lavoro, nell'alienazione più completa.
Bisogna rispondere tornando alla scuola dell'alfabetizzazione culturale, che dà a tutti il tempo, gli stimoli e il panorama di scelte con cui, per cui e su cui crescere.
Oltre tutto una crescita del livello medio di cultura si tradurrebbe anche in un orientamento dei consumi in grado di determinare un modello di sviluppo diverso, passando dai fast food, i talent show, i reality e i cinepanettoni, alla buona cucina, alla musica, al teatro e al cinema d'autore.

uno studio dell'OCSE

DISUGUAGLIANZA DEI REDDITI E MOBILITÀ SOCIALE

Negli ultimi trent'anni la disuguaglianza della distribuzione dei redditi nell'area OCSE si è aggravata. In Italia il tasso di disuguaglianza supera di un punto la media OCSE.
Il problema non si pone solo come questione attuale, ma anche in prospettiva: la ricerca dell'OCSE dimostra la stretta correlazione tra disuguaglianza sociale e dinamiche di mobilità intergenerazionale.
Indipendentemente dai livelli di disuguaglianza sociale (forte o debole) di ciascun paese, le competenze e capacità degli individui sono fattori determinanti per l'accesso a un buon impiego e la progressione sulla scala sociale. Tuttavia in paesi dove la disuguaglianza sociale è più forte, come Stati Uniti, Italia e Gran Bretagna, la situazione economica futura d'un bambino è il più delle volte strettamente correlata al livello di reddito dei genitori. Ciò fa pensare che in questi paesi il livello socioeconomico della famiglia abbia un ruolo determinante nello sviluppo delle competenze e capacità dei figli.
A controprova il fatto che questo non avviene in paesi dove la disuguaglianza dei redditi è ridotta (Danimarca, Finlandia, Norvegia).
Se ne deduce che le politiche volte ad assicurare l'uguaglianza delle chances di partenza – indipendentemente dalla situazione socioeconomica d'origine – possono favorire una più dinamica mobilità sociale e per conseguenza, a lungo termine, una riduzione delle disuguaglianze dei redditi.
fonte D’Addio (à paraître), « Social Mobility in OECD Countries: Evidence and Policy Implications » ; OCDE (2008), Croissance et inégalités : Distribution des revenuset pauvreté dans les pays de l'OCDE, www.oecd.org/els/social/inequality/GU ; Base de données de l’OCDE sur la distribution des revenus.

Questo grafico illustra la relazione tra mobilità sociale delle generazioni di una famiglia e ampiezza della disuguaglianza dei redditi di ciascun paese. Nell'insieme, nei paesi dove tale disuguaglianza è più forte, la mobilità intergenerazionale è, di norma, più debole e viceversa.

La disuguaglianza dei redditi è un problema complesso che impone strategie risolutive a diversi livelli. Tuttavia le politiche dell'educazione – e quelle centrate sull'equità, in particolare – sembrano essere le leve più efficaci di cui si dispone per ridurle nel corso del tempo. Le ricerche OCSE dimostrano che una più equa condizione di chances educative si traduce generalmente in una riduzione della distribuzione dei redditi. È altresì evidente che gli individui beneficiari di un livello più elevato di formazione godono di una maggior competitività sul mercato del lavoro, sia in periodi di crescita che di crisi. Ne deriva che quelle politiche educative che puntano sull'equità – garantendo la riuscita scolastica anche agli alunni con condizioni sfavorevoli di partenza – contribuiscono a ridurre la disuguaglianza, in prospettiva, della distribuzione dei redditi.
Fonte: Regards sur l’éducation 2011 : Les indicateurs de l’OCDE, indicateur A5 (www.oecd.org/edu/eag2011).

I risultati della rilevazione OCSE/PISA mostrano il potenziale di approcci di questo tipo. Ad esempio, nella rilevazione 2009, sulla comprensione del testo scritto, Canada, Corea, Giappone, e Finlandia hanno avuto la migliore performance. Questi paesi hanno una maggioranza di alunni con livelli alti di competenze e una percentuale relativamente scarsa di alunni con competenze non sufficienti. Mostrano inoltre una proporzione superiore di alunni resilienti, cioè di alunni che ottengono migliori risultati di quelli previsti sulla base dell'ambiente socioeconomico d'origine. In questi paesi la correlazione tra risultati degli allievi e ambiente socioeconomico famigliare è inferiore alla media OCSE.
Tutti questi paesi hanno un sistema educativo centrato sulla nozione di equità. Mettono in atto uno sforzo strategico per garantire un'educazione di qualità all'insieme della popolazione scolastica e per minimizzare l'ampiezza di variazione della performance in virtù di un'offerta riequilibrante di risorse e occasioni. In Corea e Giappone, ad esempio, insegnanti e capi d'istituto cambiano frequentemente scuola per garantire una più equa distribuzione dei migliori elementi. In Finlandia la professione d'insegnante è estremamente selettiva ed il paese dispone di un corpo docente molto competente. Nelle scuole finlandesi operano insegnanti specializzati nell'aiuto agli alunni in difficoltà e con rischio di stallo. In Canada, agli alunni di famiglie immigrate, oltre alle normali risorse, sono offerte risorse supplementari.
Se la promozione del successo scolastico e la sua equità rappresentano, verosimilmente, un obiettivo strategico importante a lungo termine, per attenuare le inuguaglianze, gli individui hanno comunque bisogno adesso di aiuto per acquisire le competenze necessarie per la riuscita in un'economia mondiale competitiva fondata sulla conoscenza.
Inoltre i paesi hanno bisogno di approcci razionali per far fronte alla scarsità di competenze, all'invecchiamento della popolazione e al declino dei vivai dei saperi, per gerarchizzare l'investimento di risorse limitate e rispondere ai bisogni di competenze sia in termini di offerta che di domanda. L'OCSE sostiene gli sforzi di questi paesi per rispondere alla sfida, tra l'altro, con il lancio (maggio 2012) della sua Strategia per le competenze.
OCSE Indicateurs de l'éducation à la loupe 4. aprile 2012